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Soldi e opere al Sud: scoppia il panico a sinistra

Fausto Carioti
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Dal governo che si dimentica del Mezzogiorno al governo che aiuta il Mezzogiorno, però non dovrebbe farlo. La sinistra deve ricalibrare di corsa le accuse a palazzo Chigi, e la colpa è della missione di due giorni di Giorgia Meloni: ieri a Palermo e oggi a Caivano, vicino Napoli. «Comparsate elettorali», le chiamano i suoi avversari. Fatto sta che i soldi e le infrastrutture arrivano, contrariamente a quanto dicevano loro, e chiedere di «fermare tutto perché il piano non è passato dal parlamento regionale», come fa l’opposizione in Sicilia, significa mettere a rischio investimenti e posti di lavoro. Al Teatro Massimo di Palermo, ieri Meloni ha firmato col governatore Renato Schifani un accordo che vale 6,9 miliardi di euro. Soldi del Fsc, il Fondo sviluppo e coesione: l’intesa consente alla Regione di avere i soldi e anche di spenderli, perché – dice la premier - stavolta «nessun euro di queste risorse deve andare disperso. È successo in passato e non deve più succedere».

Lì dentro ci sono i finanziamenti per il ponte sullo Stretto, che da soli valgono 1,3 miliardi. Il resto è per centinaia di interventi tra inceneritori, bonifiche, opere idriche, infrastrutture di trasporto, edilizia sanitaria, scolastica e sportiva, tutela del patrimonio culturale, progetti di riqualificazione urbana. «Abbiamo sottoscritto diciotto accordi di coesione, ma questo con la Sicilia è il più significativo», commenta Meloni. Rientra nella filosofia di destinare al Sud una quota di fondi per le infrastrutture pari al 40%, dunque maggiore rispetto al peso dei suoi abitanti. «Ho sempre contestato», spiega, «il principio per cui al Sud c’è il 34% della popolazione e quindi va il 34% di spesa infrastrutturale. Perché al Sud c’è lo spopolamento, che è figlio soprattutto dell’assenza di infrastrutture».

 

 


Un’altra spinta all’economia dovrebbe venire dalla Zes del Mezzogiorno, la Zona economica speciale unica che garantisce credito d’imposta alle imprese che investono nelle regioni meridionali. «Abbiamo deciso di sostituire le Zes che avevamo, concentrate nelle zone retro-portuali, con un’unica zona economica speciale che investe tutto il Mezzogiorno», ha ricordato la presidente del consiglio, ringraziando il ministro Raffaele Fitto per avere spuntato con la Commissione Ue un accordo che non era scontato. Stamattina si replica a Caivano.Il centro comunale Delphinia, abbandonato e diventato un luogo dell’orrore (lì un branco di minorenni stuprò due cuginette di 13 anni), è stato trasformato a tempo di record in una nuova struttura affidata alle Fiamme oro, il gruppo sportivo della Polizia. «Ci sarà una bonifica radicale. Vogliamo riaprirlo entro la prossima primavera», aveva promesso la premier lo scorso agosto. Impegnandosi a trasformarlo in una struttura modello «nel nome di Giancarlo Siani», giornalista ucciso dalla camorra nel 1985. L’operazione, che sembrava impossibile, è riuscita.
 

«SEMPLICEMENTE GRAZIE»
Tutto è partito da don Maurizio Patriciello, il parroco della chiesa di Parco Verde, che inviò un sms a Meloni quando ancora non la conosceva, raccontandole ciò che avveniva lì. Intervistato sull’edizione di ieri del Mattino di Napoli, ha detto che non credeva nemmeno lui al successo del governo. «Ora è tempo di avere il coraggio e l’onestà di dire semplicemente grazie. A Dio innanzitutto, e poi concretamente e con tutto il trasporto dei cuori di ogni cittadino di Caivano a chi, come la premier Giorgia Meloni, ha mantenuto la parola data». Ma questo non fa altro che alzare il livello della polemica da parte dell’opposizione. «Andiamo avanti a passeggiate anche quando magari il tuo governo non c’entra assolutamente niente», attacca il governatore campano Vincenzo De Luca. Suo figlio Piero, deputato del Pd, nei giorni scorsi aveva detto che «questi spot sono diventati intollerabili, è il momento di dire basta alla logica della propaganda». Mentre per la senatrice piddina Valeria Valente «il governo dovrebbe ricordare che esistono tante altre Caivano». Nessuna concessione, insomma: à la guerre comme à la guerre, secondo il manuale non scritto della campagna elettorale. In mattinata, ai microfoni di Rai Radio 1, la premier aveva ribadito il progetto di «costruire una maggioranza diversa», di centrodestra, nel parlamento europeo. Non ha escluso una riforma della stessa Rai in questa legislatura: «Se ci si vuole mettere mano perché la legge fatta dal Pd non va bene, per me va bene. Ma non credo che spetti al governo, semmai al parlamento». Un nuovo possibile fronte con l’opposizione. 

 

 

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