Giorgia Meloni e il re di Giordania, il retroscena sul colloquio: cosa c'è sul piatto
Cravattino nero lei, cravatta lilla lui: la premier Giorgia Meloni riceve, ieri, è il tardo mattino, poco prima di mezzogiorno, il re di Giordania Abdullah II Ibn Al Hussein. Piove a dirotto quando l’auto grigia del regnante hashemita entra nel cortile d’onore di Palazzo Chigi, a Roma. Una stretta di mano, le foto di rito, e poi un salottino, dentro il palazzo, le bandiere dietro, quella giordana e quella italiana. Parlano. Parlano per circa quaranta minuti, Meloni e re Abdullah.
Sul tavolo c’è, ovviamente, la situazione in Medioriente: dopo l’attacco del 7 ottobre da parte di Hamas, dopo la risposta di Israele, dopo le notizie, degli ultimi mesi, il fronte di Gaza e i possibili accordi. La presidente e il sovrano auspicano che gli sforzi diplomatici per un cessate il fuoco sostenibile e il rilascio degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas abbiano successo. È la dichiarazione che arriva, qualche ora dopo, alla stampa, ed è anche una dichiarazione in linea con la risoluzione numero 2728 del Consiglio di sicurezza dell’Onu, quella adottata il 25 marzo scorso a New York, con la sola astensione degli Usa.
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Meloni e re Abdullah si concentrano sulla situazione umanitaria: è lei a esprimere un forte apprezzamento per il ruolo cruciale svolto proprio dalla Giordania in questo delicatissimo settore; l’Italia c’è, garantisce la premier, il suo impegno non è in discussione quando si tratta di garantire assistenza alla popolazione civile di Gaza, anche in cooperazione con Amman. È però l’anno della presidenza italiana del G7 e, proprio in virtù di questo, Meloni, di nuovo, rifacendosi alla dichiarazione dei leader del 14 aprile scorso, ribadisce la necessità di lavorare a una de-escalation a livello regionale. Parlano, tuttavia, i due rappresentanti italo-giordano, anche delle eccellenti relazioni bilaterali che i rispettivi Paesi hanno intrecciato e continuano a intrecciare, in ogni campo, in ogni settore. A fine visita re Abdullah invita Meloni a recarsi in Giordania, lei accoglie l’invito.
Ma il “tour” capitolino del regnante di Petra e Jerash, di Aqaba e Madaba, non si esaurisce qui. Di tappe, quest’uomo di 62 anni, vestito all’occidentale, una pochette bianca nel taschino della giacca, ne ha tre sull’agenda ufficiale: oltre a Meloni deve incontrare il presidente della repubblica Sergio Mattarella e, in Vaticano, Papa Francesco. Al Quirinale, per l’evento, è presente anche il viceministro degli Esteri Edmondo Cirelli (Fratelli d’Italia).
Ed è qui, sul Colle, che re Abdullah dice che la sua Giordania riconosce e valorizza il sostegno dell’Italia nella ricerca di una soluzione a due Stati (palestinese e israeliano) in vista della stabilità in Medioriente. Sottolinea, il regnante, «la necessità di raggiungere un cessate il fuoco immediato nella Striscia, di porre fine alla catastrofe umanitaria e di fornire aiuti con tutti i mezzi possibili e senza alcun ostacolo»: «Non c’è pace», aggiunge, secondo l’agenzia di stampa Petra, «senza una giusta soluzione alla causa palestinese».
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Dura appena venti minuti, invece, nel palazzo Apostolico vaticano, l’incontro col pontefice: un dialogo cordiale, i due si conoscono da tempo, dal 2014 almeno, ossia da quando papa Francesco si è recato in viaggio nella Terra Santa e ha previsto, per l’occasione, una visita ad Amman. Ieri, a Roma, papa Bergoglio regala a re Abdullah il quadro di un mosaico raffigurante la benedizione papale in piazza San Pietro e il messaggio per la giornata mondiale della pace, il sovrano ricambia con una scultura in metallo.
«La Giordania continuerà a rivestire il suo ruolo religioso e storico di protezione dei luoghi di culto islamici e cristiani a Gerusalemme, in particolare il sito del battesimo di Gesù sulla riva orientale del Giordano», fa sapere, infine, Abdullah, sottolineando anche al papa la necessità «di porre fine ai crescenti attacchi dei coloni contro la popolazione di Gerusalemme e nei villaggi e nelle città della Cisgiordania» e mettendo in guardia sulle «conseguenze» di quelle che lui chiama «le persistenti violazioni di Israele dei luoghi di culto».
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