Rai, comandare a viale Mazzini non garantisce la vittoria alle elezioni
Di tutto, di più, di troppo. Nel senso di aspettative mal riposte dai partiti verso l’azienda del servizio pubblico radiotelevisivo. Ogni volta si incrociano le lame per accaparrarsene i vertici; il che serve a garantirsi – anche se mai da subito – la governance aziendale e scendendo per li rami ciò che si può conquistare per la propria bandiera. Ma la resa elettorale è scarsa; almeno da quando c’è il maggioritario, il bipolarismo italiano premia chi non comanda a viale Mazzini. Lo ha mostrato con la forza dei dati in una slide Giovanni Floris l’altra sera a La7, durante il suo programma DiMartedì. Ma ne parliamo fra un attimo, perché il tutto va preceduto (e seguito) da qualche ragionamento. Anzitutto alla testa dell’azienda ci sono state fior di personalità, ciascuna delle quali voluta da forze politiche di maggioranza che puntualmente hanno perso il treno della vittoria elettorale. Nel ’94 imperava la Rai dei professori, il presidente si chiamava Demattè.
Ma arrivò Berlusconi. Poi le stagioni della Moratti, quelle di Enzo Siciliano e del professor Zaccaria, e poi arrivò dalla Consulta Baldassarre, a viale Mazzini si insediò persino Lucia Annunziata, e via via Anna Maria Tarantola, Monica Maggioni, e poi non in ordine cronologico abbiamo visto anche Sergio Zavoli, Paolo Garimberti, Marcello Foa fino alla Marinella Soldi di adesso (qualcuno lo avremo dimenticato) e tanti altri, con i loro direttori generali e/o amministratori delegati (i veri capi azienda). Sull’Huffington Post di qualche giorno fa è stato Pierluigi Battista a raccontare una storia che pare divertente, appunto la lottizzazione che va a sbattere sul muro della sconfitta al momento decisivo del voto. Ci si accapiglia, ma... «Che poi, tutti questo sfiancarsi per conquistare la fortezza Rai, ma a che serve?», scrive Battista. «Davvero pensano che l’assalto alle poltrone della tv di Stato porti voti, consensi, successi elettorali? Davvero possono interessare qualcuno che non sia chi sta per ottenere prebende e gratificazioni? No. È la storia che ce lo dice: la Rai non serve a niente per vincere le elezioni».
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E qui il racconto si fa davvero interessante, come in un’inchiesta dal finale davvero inaspettato: la Lega si impose nell’arena politica totalmente ignorata dalla Rai. Idem per i Cinque Stelle che arrivarono al 2018 senza nemmeno uno strapuntino su cui comiziare. È «la legge ferrea, dalla fine della Prima Repubblica in poi», sentenzia Battista: «se hai la Rai, perdi le elezioni». Quel che appare incredibile è che il sindacato dei giornalisti chiamato Usigrai – che non ha più il monopolio della rappresentanza, essendo intanto nata Unirai – ora pensa a cinque giorni di sciopero. Ora, mica prima. «Non vogliamo essere il megafono della maggioranza di governo», annunciano. Magari se lo siete stati in passato non lo avete fatto benissimo, viste le statistiche elettorali. E solo adesso vi svegliate perché c’è la pericolosissima destra al governo dell’Italia. Basta finalmente snocciolare la realtà. 1994 professori, Rai di sinistra, vince la destra. 1996. Rai di destra (Moratti), vince la sinistra. 2001, Rai di sinistra, vince la destra. 2006, Rai di destra, vince la sinistra. 2008, Rai di sinistra, vince la destra. 2013 Rai Cda “di destra”, vince la sinistra. 2018 Rai Cda “di sinistra”, vincono 5Stelle e Lega. Poi arriva la stagione dei tecnici e nel 2022 chi vince? L’unica forza politica che non sedeva nemmeno nel consiglio di amministrazione, Fratelli d’Italia. Scongiuri.
E anche per questo è ridicola la par condicio per legge. Diciamo che la capacità di fare informazione per orientare il consenso popolare è decisamente sopravvalutata. Anche grazie ai social riceviamo un mare di notizie, prevale la capacità individuale di critica visto che è sempre più difficile distinguere il vero dal falso. E questo riguarda anche la credibilità dei conduttori e dei giornalisti, non più individuati come detentori e diffusori della verità. Probabilmente il servizio pubblico radiotelevisivo si deve rifondare, perché oggi, in realtà, è impossibilitato a fare concorrenza vera. E questa è l’altra faccia della medaglia: se hai un tetto per le retribuzioni, la fuga verso chi paga di più è assolutamente ovvia. Inutile spargere lacrime se qualche grosso nome se ne va, le casse della Rai non possono essere prosciugate da megaretribuzioni di gente (un po’ ingrata) che in azienda si è fatta un nome e ora scappa verso tv più generose. La politica che fa le leggi non può più ignorarlo.
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