Francesco Speroni e il racconto della Lega: "Pochi soldi, Umberto Bossi e le liti"
Domani la Lega Lombarda, nucleo fondante di quella che poi diventerà la Lega Nord, compie 40 anni. Era il 12 aprile del 1984 quando Umberto Bossi, la moglie Manuela Marrone e altri sognatori, si trovarono nello studio del notaio Franca Bellorini per fondare un’associazione culturale. Uno degli storici scudieri di Bossi è stato Francesco Speroni, il primo europarlamentare leghista (assieme al bergamasco Luigi Moretti), poi senatore e ministro. Ombra del Senatùr negli anni eroici del Movimento. Speroni (che recentemente ha raccontato la sua storia nel libro Il volo padano, scritto con Marco Linari), ha accettato di raccontare a Libero la sua Lega. Dalle origini alla svolta nazionalista.
Speroni, saliamo sulla macchina del tempo: si ricorda il suo ingresso in Lega?
«Due anni dopo la fondazione. Lo stimolo fu un volantino con sopra scritto: Sono lombardo, voto lombardo. Un concetto che mi è rimasto anche oggi. Pensi che mi definisco ancora secessionista...».
Poi le riunioni in sede...
«A Varese nei primi tempi non c’era ancora. Ci si riuniva tutti i giovedì sera nello scantinato dell’Hotel Bologna. Poi è arrivata la sede storia di piazza del Podestà che è ancora lì oggi».
Che politica era quella?
«La Lega era agli inizi. Pensi che nell’85 si presentò alle provinciali di Varese e nemmeno me ne accorsi. Non c’erano i soldi nemmeno per volantini e manifesti».
La situazione è migliorata?
«Le racconto questo aneddoto: 1987, campagna per le elezioni politiche. Castellazzi chiama e dice che lui riesce a coprire con l’attacchinaggio Pavia, forse l’Oltrepo, ma non la Lomellina. Bossi chiede chi di noi abitava più vicino a quella zona. Io stavo a Busto Arsizio... così parto in macchina con colla e manifesti, mi fermo a Vigevano dove mi aspetta un iscritto, che per paura di essere visto appena sale in macchina si sdraia per nascondersi... E io penso: “cominciamo bene...”. Io riparto, lui mi indicava i punti dove c’erano tabelloni e io attaccavo i manifesti. Abbiamo girato tutta la Lomellina, Mortara, Gambolò, e poi via di nuovo a casa. All’epoca le società che attaccavano i manifesti non c’erano ancora...».
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Ha parlato di Bossi. Quale è stata l’importanza del Capo nella sua vita politica?
«È stato determinante al 100%. Io sono cresciuto all’ombra di Bossi. Vede, io facevo il tecnico di volo per l’Alitalia e avevo tanti giorni di riposo anche durante la settimana. A lui piaceva essere accompagnato e così io potevo stare molto con lui. Passava a prendermi con la sua Citroen e poi via.
Tra di noi c’è sempre stata grande sintonia: lui era il capo e io lo seguivo. E poi, devo ammettere di avere avuto una grossa responsabilità...».
Quale?
«Quando Bossi fu eletto sia alla Camera sia al Senato, fui io - ignaro del fatto che tutti i big tranne Spadolini si erano fatti eleggere alla Camera - a consigliargli di optare per il Senato, in modo da far scattare il seggio di Leoni a Montecitorio. Dalì nacque il mito del Senatùr...».
Ci svela una curiosità su Bossi?
«Ve ne racconto una legata ai computer. Tutti i partiti usavano ancora i ciclostili. Lui voleva solo i pc. Avevamo quelli fatti a scatola della Apple. E stiamo parlando di anni nel quali internet c’era a malapena e i cellulari pure. Oggi coi social è cambiato tutto».
Quello dell’87 fu il primo passo importante della Lega, cui seguì quello dell’89...
«Quando fui eletto all’Europarlamento assieme al bergamasco Moretti. Noi due assieme a Bossi e Leoni eravamo i quattro eletti della Lega, che macinavano chilometri per fare comizi e incontri pubblici».
Anni difficili. Tutti guardavano Bossi e i leghisti con diffidenza...
«Attorno a noi si era formato un vero e proprio cordone sanitario. Nei Comuni, anche se riuscivamo ad ottenere la maggioranza relativa, si formavano coalizioni improbabili pur di tenerci all’opposizione. Nel 1990 alle regionali in Lombardia riuscimmo a far eleggere 15 consiglieri, tra i quali c’ero anche io, relegati rigorosamente all’opposizione. Per poter contare bisognava fare come a Cene, un Comune della bergamasca, dove andammo al governo, ma solo perché prendemmo più del 50% dei voti».
Poi c’è stato il grande boom del ’92 e da lì la Lega si è accreditata come forza di governo, anche in alleanza con Berlusconi. L’ha conosciuto?
«Certo, i primi contatti tra Lega e Forza Italia li tenemmo io e Maroni, che all’epoca eravamo capigruppo al Senato e alla Camera. I primi incontri ad Arcore con Berlusconi li facemmo noi due. Dal terzo in poi si aggiunse anche Bossi».
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Che ricordo ha di Roberto Maroni?
«Tra noi c’è sempre stata grande collaborazione, sia come capigruppo, sia come ministri. Eravamo spesso insieme e io sfruttavo (lecitamente) il fatto che Maroni, da ministro degli Interni doveva obbligatoriamente viaggiare con voli di Stato. E visto che eravamo tutti e due della provincia di Varese... tornavamo a casa assieme».
Se dovesse scegliere un momento iconico di questi quarant’anni di Lega?
«Il momento più bello della mia vita politica è stata l’approvazione della riforma dello Stato in senso federale del 2005. Poi nel 2006 quel progetto venne bocciato al referendum. E quello fu il momento più brutto della mia carriera politica».
Il 29 aprile c’è la discussione finale sull’Autonomia.
«Chiariamo: l’Autonomia non è il federalismo, ma certo è meglio del centralismo che fino al 2001 ha soffocato l’Italia e poi darà finalmente attuazione alla riforma costituzionale. Sarà il primo passo verso l’autonomia tipo quella che c’è in Svizzera? Io lo spero».
Secessione, autonomia, devolution. E ora la Lega nazionale. Che ne pensa?
«Primo: la Lega, comunque se ne pensi ha sempre avuto attenzione al territorio e ce l’ha ancora oggi. Secondo: i tempi cambiano e devono cambiare anche le formule.
Mi spiego meglio: in un sistema Tolemaico tutti i pianeti girano attorno alla Terra. Ma noi non siamo in un sistema Tolemaico e soprattutto la politica né prima né ora gira attorno alla Lega. Quindi oggi ci sta che sia diventata un partito nazionale».
Ultima domanda: c’è una cosa che non ha mai detto e che vorrebbe dire a Bossi e a Salvini?
«No. È noto che io sia uno che dice sempre quello che pensa...».
Nemmeno un consiglio?
«Bisogna invertire la parabola elettorale. Non credo sia questione di linea o di persone. Vediamo come vanno le europee».