Terzo mandato, il caso non è chiuso: una lettera sulla scrivania di Meloni
La questione del terzo mandato per i governatori non è affatto chiusa, nonostante la bocciatura, giovedì, in prima commissione al Senato dell’emendamento leghista che puntava a introdurlo. Non lo è innanzitutto perché le Regioni, con una lettera sottoscritta dall’organismo in cui siedono i governatori di qualunque colore politico (cioè la Conferenza delle Regioni e delle Province autonome) ha chiesto ufficialmente un incontro al governo, in particolare al ministro Roberto Calderoli, in quanto ritengono necessario «avviare un confronto costruttivo e collaborativo con il governo». Oltre al tema del terzo mandato, si chiede di discutere dell’aumento del numero dei consiglieri nelle piccole regioni «affinché sia garantita la rappresentanza dei partiti negli organi esecutivi».
QUESTIONE DI NUMERI
Un passo non indifferente. Perché se FdI e Forza Italia hanno i numeri in Parlamento per mettere in minoranza la Lega, più complicato diventa mettersi contro tutte le Regioni e contro presidenti che hanno un legame stretto coi cittadini, essendo stati eletti direttamente. Ne è ben consapevole Massimiliano Fedriga, governatore del Friuli Venezia Giulia e presidente dell’organismo, che, ieri, invitava il governo - gentilmente, ma con fermezza - a non ignorare la richiesta: «Mi sento», ha detto ieri, «di propiziare un coinvolgimento delle Regioni nel processo decisionale» sul terzo mandato «perché mi sembrerebbe profondamente scorretto decidere sull’organizzazione istituzionale e democratica delle Regioni senza le Regioni». Quanto alla bocciatura in Commissione, «sono normali dinamiche parlamentari». Quel voto, per Fedriga, non ferma affatto la discussione, anche perché, ha fatto notare, la posizione delle regioni «è già emersa a dicembre all’unanimità: la Conferenza si è dichiarata favorevole».
Se la maggioranza insistesse, la battaglia potrebbe assumere toni molti più forti, trasformandosi in un boomerang per chi ora la liquida con un voto parlamentare. Ne ha dato un assaggio, ieri, Luca Zaia, governatore del Veneto, dicendo di trovare «strano che ci siano delle persone che votano a favore del blocco dei mandati di sindaci e di presidenti di regione che sono eletti direttamente dal popolo e poi vai a vedere il curriculum di alcune persone ed è da quattro o cinque legislature che sono in Parlamento». E sullo stesso tono è intervenuto anche Giovanni Toti, presidente della Liguria, parlando di una «spaccatura tra la politica romana e quella della periferia del Paese, una divaricazione molto pericolosa che sfiora lo scontro istituzionale visti i ricorsi che molti stanno ventilando». Si è quindi augurato che «Fratelli d'Italia e Giorgia Meloni facciano una riflessione».
Il popolo contro il Palazzo, i cittadini contro la politica, insomma. Ed è lo stesso schema che utilizza De Luca, in una delle sue dirette ormai cult: «La sostanza di questo dibattito», ha detto, «è che tutti i nominati nelle aule parlamentari hanno paura del voto libero dei cittadini, è sconcertante». Da chi essere governati, ha aggiunto, lo devono decidere i cittadini, «non i parassiti che abbiamo nove volte su dieci».
Meloni non si mostra preoccupata. Anche ieri ha ripetuto che il governo non rischia nulla, «è l’ennesima speranza della sinistra che non troverà realizzazione». Ma le tensioni restano. Con i governatori e all’interno dei due schieramenti. Matteo Salvini ha di nuovo assicurato che «non c’è nessun problema di maggioranza e di governo», mala Lega ripresenterà l’emendamento in Aula. E quel punto “deciderà il Parlamento». E problemi ci sono anche nell’altro campo.
DISCUSSIONE INTERNA
La segretaria del Pd, Elly Schlein, ieri ha provato a ricucire con la minoranza interna e con Stefano Bonaccini, a proposito del voto contrario espresso dai dem, assicurando che il Pd punta a «una riforma complessiva», che affronti non solo il tema dei mandati, ma anche «i necessari pesi e contrappesi». Dunque, non è che il no all’emendamento leghista significhi no al terzo mandato, resta «l’impegno a discutere internamente», come era stato promesso in direzione. Una promessa che gli amministratori dem non intendono far scivolare nel nulla. Come spiegava ieri il sindaco di Firenze, Dario Nardella, il voto contrario in commissione nasceva dall’esigenza di unità con le opposizioni, ma fatta questa prova si spera «che nel partito ci sia l’occasione per ridiscuterne e per trovare una sintesi». La questione, insomma, è ancora aperta.