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Terzo mandato, primo obiettivo non litigare. E chi ride a sinistra si guardi in casa

Daniele Capezzone
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Ci sono delle tensioni tra Fratelli d’Italia e Lega? Certo che sì. C’è una competizione a tratti anche piuttosto ruvida tra Giorgia Meloni e Matteo Salvini? Ovvio, c’è da anni. La questione del terzo mandato per i governatori regionali può rappresentare una miccia da non sottovalutare? Sicuro, visto che il principale casus belli riguarda Luca Zaia, figura di per sé rilevantissima, e un territorio come il Veneto, gran roccaforte del voto leghista. Morale: il problema esiste, e il centrodestra farà bene ad affrontarlo. Ragionevolezza suggerirebbe di mettere sul tavolo tutte le questioni aperte (terzo mandato, eventuale revisione di alcune caselle di governo, candidature nelle regioni nei prossimi 12-18 mesi, ecc) e risolverle contestualmente, per un verso tenendo conto dei nuovi rapporti di forza favorevoli a Fdi (su questo Lega e Fi devono elaborare un piccolo lutto: non è immaginabile che un partito vicino al 30% esprima solo tre o quattro presidenti di regione), e per altro verso considerando l’esigenza di mantenere unita la coalizione (e qui il piccolo lutto lo deve elaborare Fdi, a cui spetta un dovere di generosità nei confronti degli alleati).

Ciò detto, fa abbastanza sorridere il tentativo della sinistra e dei suoi giornali di riferimento di presentare ogni giorno queste scaramucce come l’anticamera dell’apocalisse per il governo. Da quelle parti, farebbero meglio a pensare ai propri guai: il Pd non dispone né di un’alleanza stretta con il M5S (anzi: Conte è più che mai aggressivo verso Schlein) né del mitico campo largo, cioè di un’alleanza più vasta. Di più: tolto dal tavolo qualche settimana fa il salario minimo, il Pd non ha nemmeno una battaglia distinguibile, una campagna in corso, qualcosa in cui gli elettori di sinistra possano identificarsi. Morale: è inutile drammatizzare strumentalmente la corsa verso il voto europeo. Di più: le caratteristiche iperproporzionaliste di quella campagna elettorale scateneranno inevitabilmente una competition spigolosa. Tutti saranno almeno un po’ reciprocamente nemici, in primo luogo verso i partiti più vicini, in quanto maggiormente indiziati di togliere un voto o comunque di pescare nel medesimo bacino.

 

 

Non solo: anche il timing delle europee le rende fatalmente roventi. Per il governo, sono elezioni di medio termine; per l’opposizione, sono primarie aperte. Ciascuno si peserà, e ovviamente conta di uscire dalle urne con un po’ di forza contrattuale aggiuntiva. E poi si vedrà. E allora il punto è proprio quel “poi”. Ecco, prima del 9 giugno, varrebbe forse già la pena di pensare con saggezza (almeno un pochino) al giorno dopo, al 10 giugno, a cosa ciascuno vorrà-potrà-dovrà fare dopo. Nessuno è così ingenuo da pensare che una campagna elettorale possa essere raffreddata-congelata-sterilizzata. Ma sarebbe almeno ragionevole provare (per ciascun leader e per ciascuna forza) a collocarla nella giusta prospettiva, a considerarla come la tappa di un percorso.

 

 

Ragionando così, qualche tono potrà essere opportunamente modulato, e qualche relazione potrà magari evitare di risultare devastata dalla polemica. Se invece la prova si riducesse a una pira dove bruciare tutto senza pensare al dopo, la sensazione è che il 10 giugno potrebbe esserci parecchia cenere da spazzar via. E questo ci fa tornare alla metà campo del centro-destra. Si tratterebbe – con testa fredda e lucidità politica – di mettere meglio a fuoco il rapporto tra Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Antonio Tajani. Servirebbe a poco il gioco delle reciproche differenziazioni quotidiane, in ultima analisi esercizio casuale ed estemporaneo, da una parte o dall’altra. Scelte del genere – chiunque le mettesse in campo – otterrebbero solo due risultati: un indebolimento complessivo del governo, e un sicuro fastidio degli elettori di centrodestra per gli artefici di un’operazione simile. Sarebbe più utile – in modo intelligente e concordato – una lungimirante divisione dei compiti da qui alle Europee.

So bene che in politica è difficile tracciare confini troppo nitidi. E tuttavia penso che tanti italiani di centrodestra auspicherebbero che ci fosse la saggezza per scrivere un “copione” comune dotando ogni attore di una "parte" senza sovrapporsi agli altri: più presidenzialista la Meloni, più autonomista Salvini, più garantista Tajani, per fare un esempio banale. Non solo: mi rendo conto che è facile scriverlo in un commento, e certamente più difficile realizzarlo in pratica per chi sta nella trincea della lotta politica quotidiana. Ma sarebbe interesse del centrodestra focalizzare le energie sui tre dossier (tasse, sicurezza, immigrazione) che sono i più decisivi per i propri elettori, anche immaginando degli obiettivi tempificati, un cronoprogramma, un percorso impegnativo che dia ai cittadini la certezza di alcuni obiettivi di legislatura, di traguardi da non perdere di vista al di là delle micropolemiche del day by day.

Lo stesso tema delle alleanze europee può essere intelligentemente sdrammatizzato. Salvini desidera rimanere agganciato a Marine Le Pen e ai tedeschi di Afd? Ne ha pieno diritto, anche perché si tratta di forze (lo mostra il caso olandese) in espansione. Sta a lui trovare la giusta misura: per un verso, non abbandonare forze con cui ha condiviso un cammino europeo negli anni passati; per altro verso, evitare che ciò apra conflitti non necessari con i suoi alleati italiani. Contestualmente è bene che non siano gli alleati italiani (Fdi e Fi) a porre veti preventivi verso chicchessia. Saranno i numeri, dopo il voto europeo del 9 giugno, a decidere tutto. Dunque, non c’è motivo di polemizzare tra i tre partiti italiani di centrodestra, che invece hanno tutto l’interesse a coprire ciascuno uno spazio politico, ad allargare, a diversificare. Senza pestarsi i piedi. Buon lavoro a tutti. 

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