Agnelli, se anche un grande torinese come Enrico Salza dice che "hanno perso le radici"

di Salvatore Damamartedì 13 febbraio 2024
Agnelli, se anche un grande torinese come Enrico Salza dice che "hanno perso le radici"
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Cosa pensa Torino degli Elkann? Se lo chiedessimo al “torinesissimo” Enrico Salza, non tutto il bene possibile, ecco. Secondo il banchiere la quinta generazione della famiglia Agnelli ha smarrito la connessione con la città, «hanno perso le radici». E no, non è un buon periodo per i protagonisti contemporanei della dinastia Fiat. Pessimi rapporti con il governo. Carte bollate con la mamma per l’eredità. E ora anche la città, la rete torinese di relazioni che ha contribuito a salvare l’azienda dopo la morte dell’Avvocato, presenta il conto.

Passo indietro. Chi è Enrico Salza e perché può essere giustamente considerato una voce della Torino che conta (e che ha contato). Imprenditore, vertice di Confindustria, presidente di Sanpaolo Imi e uno degli artefici della fusione con Banca Intesa. Salza, 87 anni, è in quel periodo della vita in cui si ha la libertà di parlare senza filtri. Ed ecco che, in un libro-intervista curato da Giuseppe Russo (edito da Fondazione 1563 per l’Arte e la Cultura e da Leo S. Olschki Editore), si sofferma sugli anni difficili della Fiat e su come l’azienda sia sopravvissuta a Gianni e Umberto Agnelli. «Ho sempre detto, e ribadisco, che non esiste un diritto al credito neppure se si è la maggiore azienda italiana. Questo aveva salvato il Sanpaolo dal finanziare la maggior parte delle crisi delle grandi imprese negli anni precedenti.

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Anche con Fiat mantenemmo un atteggiamento realistico», spiega il banchiere. Parole al miele per Sergio Marchionne («Ci fu un feeling immediato, venne spontaneamente a raccontarmi le vicende della Fiat nel mio ufficio, direi mensilmente, ispirava fiducia»), un po’ meno per Montezemolo («Mai avuto le stesse vedute»). E il rapporto con la famiglia Agnelli-Elkann? «Quando aprimmo al convertendo, che rese possibile il salvataggio della loro azienda, pretesi che attraverso l’accomandita partecipassero all’aumento di capitale che li ha salvati. E per una famiglia alla quinta generazione non è stata una scelta facile da digerire. Anzi credo sia stato un rospo. Adesso dovrebbero ringraziarmi. Ma c’è sempre stata una differenza tra me e loro, soprattutto dei tanti di cui sappiamo solo l’esistenza, ma che non conosciamo. Io facevo lo stesso loro mestiere, di imprenditore, in una città che amo. Loro hanno perso le radici».

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