Repubblica, il giornale di Agnelli beatifica Lenin: ecco cosa pubblicano
Ostalgia canaglia, dove Ost sta per Est. Quanto ci mancano le grandi ideologie, le rivoluzioni, il mondo diviso in blocchi contrapposti, il muro di Berlino, le bandiere rosse e soprattutto il comunismo.
Beh, non proprio a noi che ne avremmo fatto volentieri a meno, considerandolo una delle aberrazioni della storia (tra i cinque peggiori dittatori almeno tre sono comunisti, Pol Pot e Mao Zedong irraggiungibili in testa alla classifica, Hitler distaccato, Mussolini neppure nominato). Però, per commemorare i cento anni della morte del compagno Vladimir Ilic in arte Lenin, la Repubblica si tinge di rosso in prima pagina, con un’immagine del leader bolscevico tratta da un dipinto propagandista del realismo sovietico e un titolo alquanto agiografico: «Lenin, un romanzo russo», ad aprire le tre pagine di cultura, scritte con linguaggio avvincente da Ezio Mauro, che troveranno seguito sul quotidiano romano una volta al mese nella tradizione dei migliori romanzi d’appendice.
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Un impianto narrativo degno di John Reed, quello dei Dieci giorni che sconvolsero il mondo (1919), e della sua trasposizione cinematografica Reds (1981) diretta e interpretata da Warren Beatty. Allora era un altro mondo e complice il diffondersi della cultura di sinistra soprattutto nelle generazioni più giovani il comunismo era percepito come qualcosa di positivo, omettendo il particolare superfluo «trattasi di dittatura che ha fatto milioni di morti». Poi qualcosa è cambiato, il ‘900 è andato in soffitta, non che non siano rimasti contrasti drammatici nel mondo, ma in Europa quell’inquietante macchia rossa verso Est si è in parte dissolta, almeno dal punto di vista cromatico.
ISPIRAZIONE EPICA
Ragioniamo per un momento sulla parola romanzo utilizzata nel titolo del pezzo. Romanzo ha una valenza positiva, è forma narrativa complessa che coglie ispirazione dall’epica rendendola fenomeno popolare. Ha grandi personaggi e il protagonista è pressoché sempre un eroe positivo, le cui gesta, avventure, sofferenze, diventano paradigmatiche nella formazione della storia. Del romanzo i russi furono maestri, si leggano Tolstoj e Dostoevskij. Con il sopraggiungere dell’Urss e la creazione della corrente del realismo socialista chi non obbediva veniva messo di fronte a scelte drammatiche, prigione o campo di concentramento (Mendel’stam) o suicidio (Majakovskij e Marina Cvetaeva), altri finsero di essere fedeli al regime pubblicando romanzi “ufficiali” e affidando all’editoria clandestina la loro vera opera (Bulgakov, Pasternak, Babel). Fine della grande letteratura ottocentesca. Il più grande pittore astratto Kazimir Malevic, fondatore nel 1913 del Suprematismo, fu costretto a dipingere opere figurative per compiacere la dittatura sovietica e continuare a lavorare, ma morì presto, offeso e umiliato, nel 1935.
Difficile trovare storie di profonda distruzione intellettuale nel fascismo così come ci furono nella Russia comunista con Lenin ancora vivo, senza controllo dopo la sua morte, quando il criminale Stalin prese il potere. Eppure secondo la Repubblica, «l’uomo che travolse il Novecento» merita una santificazione senza quasi nessuna incertezza né ripensamento alla luce della storia, ad eccezione di un solo passaggio che pure un fan del bolscevismo come Ezio Mauro deve esternare il proprio dubbio: «Con una fede quasi fanatica in se stesso e nel destino della rivoluzione proletaria, Lenin teneva insieme tutto, compensava oggi con ieri, aggiornava la teoria alla prassi rivoluzionaria, sminuiva le contraddizioni come inevitabili e passeggere, e col massacro dei cosacchi del ’19 inaugurava il primo terrore bolscevico, che poi Stalin avrebbe ingigantito in ossessione patologica per la distruzione sanguinaria di ogni dissenso, anche semplicemente sospetto».
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SANGUINARIO
Certo un dilettante di stragi rispetto al Piccolo Padre, eppure anch’egli giustiziere sanguinario a lungo oggetto di culto dopo la morte, fino alla fine del comunismo sovietico nel 1991 e oltre ma non solo. A Cavriago in Emilia campeggia ancora il busto eretto in suo onore, diverse città e tra queste Bologna hanno mantenuto strade con la denominazione di Leningrado, soprannominata così nel 1924, quattro giorni dopo la morte di Lenin e riportata a San Pietroburgo solo nel 1991. Nessun imbarazzo dunque nel raccontare, persino con piglio romantico, l’attentato subito nel 1918 e quindi il gigantesco funerale del 21 gennaio 1924 sulla Piazza Rossa con la folla che piangeva a oltre 30 gradi sottozero, per citare Franco Battiato. E come il flashback di un avvincente romanzo che terrà a lungo compagnia ai lettori di Repubblica, gli anni dell’esilio, lo studio del marxismo per mettere a fuoco «la teoria della dittatura, un potere conquistato dalla violenza del proletariato contro la borghesia».
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Avrà cambiato il mondo ma Lenin è stato innanzitutto un pericoloso criminale, infatuato dalla violenza, del tutto indifferente agli spargimenti di sangue di qualsiasi oppositore politico, e pazienza se fossero persone dello stesso suo popolo. Suona strana la santificazione su un quotidiano del Gruppo Gedi, probabilmente l’avvocato Agnelli si sta rivoltando nella tomba, segno che il comunismo continua a esercitare fascino persino negli insospettabili, nessuno mai si sognerebbe di vietarlo o anche solo di stigmatizzarlo. L’Unità, storico organo comunista pur sempre fondato da Antonio Gramsci, sembra avere invece un piccolo dubbio. «Genio o despota?» titola il pezzo in prima di Michele Prospero, ringraziamo il redattore per il punto interrogativo ma il ritratto realista ove campeggiano falce e martello su bandiera rossa ci confermano che certe abitudini sono dure a morire.