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Autonomia? Se a parlare di "spacca-Italia" è chi ha sfasciato il Paese

Fausto Carioti
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Gronda ipocrisia la campagna con cui il Pd e Repubblica dipingono il governo e il centrodestra intenti a rompere «la coesione e l’unità del Paese» col disegno di legge sull’autonomia differenziata. Nella settimana in cui lo «spacca-Italia», come lo chiama il capogruppo piddino Francesco Boccia, sbarca nell’aula del Senato, l’accusa di sfascismo dovrebbe servire ad allargare la crepa tra Lega e Fdi, oltre che ad aizzare il Mezzogiorno contro i partiti di governo in vista delle elezioni europee. Ipocrisia perché una riforma che ha sfasciato il Paese, varata a colpi di maggioranza e scritta nel peggior modo possibile, l’Italia l’ha vista ventitré anni fa: è quella con cui l’Ulivo, con Giuliano Amato a palazzo Chigi, per inseguire la Lega e i suoi elettori riscrisse il Titolo V della Costituzione, che regola i confini dei poteri di Regioni, Province e Comuni. E lo fece con la benedizione di Repubblica. Prima spaccò l’Italia sotto l’aspetto politico. Nessuna traccia di quel «grande patto costituente» che adesso l’opposizione pretende dal centrodestra, intenzionato ad introdurre l’elezione diretta del premier. Nei due scrutini decisivi, la famigerata legge costituzionale n. 3 del 2001 passò per pochissimi voti: appena quattro alla Camera, il 28 febbraio, e nove al Senato, l’8 marzo. Una riforma fatta entrare nella Costituzione a martellate fu il canto del cigno di quell’alleanza: la sera stessa in cui l’aula di palazzo Madama votò il testo, Carlo Azeglio Ciampi sciolse le Camere.

Coloro che oggi accusano i vincitori del 2022 di usare metodi da regime si applaudirono da soli. Piero Fassino, esponente dei Ds e candidato vicepremier dell’Ulivo, assicurava che la riforma avrebbe «reso più efficienti i servizi di cui i cittadini fruiscono tutti i giorni e realizzato una riorganizzazione dello Stato e dei poteri pubblici che consentirà all’Italia di essere un Paese più efficiente e moderno». Vasco Errani, governatore dell’Emilia-Romagna, spiegava che non doveva essere considerata «la riforma di una parte contro l’altra», perché farla «era interesse dell’Emilia-Romagna come della Puglia». Quanto a Repubblica, il giorno dopo la votazione della Camera affidò il compito di commentare l’operazione al costituzionalista dell’Ulivo Andrea Manzella. Il quale spiegava che quella riforma era «un’architrave per la Repubblica», votata dal centrosinistra non per «disciplina di gruppo», ma per «disciplina repubblicana: perché è la conformazione stessa della Repubblica ad avere bisogno di questo disegno di legge». Motivo per cui era «infondata ogni polemica sulla revisione costituzionale “di maggioranza”».

 

 

Nell’editoriale, Eugenio Scalfari elogiava «una vera riforma federalista moderna, disegnata in parlamento con equilibrio tra i poteri del centro e della periferia, e non imposta a strappi e spintoni». La verità venne a galla appena quella scellerata modifica, confermata dagli elettori col referendum, entrò in vigore. Perché, dopo avere spaccato il parlamento, frantumò l’Italia dal punto di vista amministrativo. In particolare il nuovo articolo 117, che prometteva di spartire le competenze tra Stato centrale e Regioni in modo non più centralistico, ha creato un’enorme zona grigia che ha causato l’incredibile numero di 2.256 ricorsi alla Corte Costituzionale tra il 2001 e il 2022 (e presto avremo il conto del 2023). In due casi su tre la questione è stata sollevata dallo Stato, nella convinzione che le Regioni stessero prendendosi poteri non previsti dalla Carta; negli altri casi è avvenuto l’opposto. Quasi la metà delle sentenze emesse dalla Consulta dal 2001 al 2022 ha riguardato il contenzioso prodotto da quella riforma. Finanza pubblica, sanità, ambiente, energia: non c’è materia importante su cui i giudici costituzionali non siano stati costretti ad intervenire per portare un po’ d’ordine in quel caos. Altro che «architrave per la Repubblica». Per inciso: fu del tutto inutile a chi l’aveva voluta imporre in quel modo. L’alleanza guidata da Francesco Rutelli, con Fassino e gli altri improvvisati padri costituenti al seguito, non arrivò al 36% dei voti. Ed è l’unica cosa buona di questa storia. 

 

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