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Gentiloni pronto a sfrattare Elly Schlein

Elisa Calessi
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Agli amici lo aveva già detto da mesi. E anche alla stessa Elly Schlein che, su una sua disponibilità a candidarsi, lo aveva sondato tempo fa. Ieri Paolo Gentiloni lo ha annunciato pubblicamente, rispondendo ad una domanda dei cronisti: «No, non mi candiderò al Parlamento europeo». Quanto al suo futuro, ha aggiunto: «La mia intenzione è tornare in Italia». Poi, anticipando, con l’ironia che gli è propria, un pensiero dei presenti: «Non andrò mai in pensione».

Da ieri, quindi, per gli appassionati delle vicende dem, ha ripreso vita un argomento di dibattito che promette interessanti sviluppi, almeno a livello di chiacchiere. Il tema si innesta in un’antica consuetudine del Pd: ragionare su come e quando cambiare il segretario attuale. Perché all’entusiasmo iniziale, segue sempre la delusione, non appena si fanno i conti con la testarda realtà. E così sta succedendo con Elly Schlein, coraggiosa e determinata, ma attorniata da una comunità complicata. L’entusiasmo che l’ha accompagnata dopo l’imprevista vittoria alle primarie, dove addirittura ha sovvertito il voto degli iscritti, sta scemando.

 

 

 

Tra i dirigenti più che tra i militanti, compresi i big che l’hanno sostenuta. Il fatto è che di fronte ai sondaggi fermi al 20% e a un M5S, invece, sempre più vicino al Pd, l’equipaggio dem si chiede se scommettere sul Capitano Elly è stata una scelta azzeccata oppure no. Se finiremo in mare o apprenderemo da qualche parte. Schlein, ieri, a domanda su Gentiloni, ha risposto come era giusto: «Il Pd è casa sua». Si sentono spesso, ha detto.

 

 

 

Ma anche lei sa che tutti l’aspettano al varco: le elezioni europee, dove ciascun partito correrà per sé e dunque sarà pesato singolarmente. Il Pd di Elly avrà due termini di paragone, entrambi difficilissimi: il 40% di Matteo Renzi, punto più alto dei consensi ottenuti dall’ex premier, da cui poi iniziò la rovinosa discesa, e il 22,7% di Nicola Zingaretti, conquistato alle ultime elezioni europee in una situazione di non grande salute per il Pd. Raggiungere la percentuale di Renzi è quasi impossibile, ma se dovesse addirittura scendere sotto Zingaretti sarebbe un guaio grosso.

Il nome di Gentiloni, nonostante lui davvero non voglia pensarci e faccia di tutto per sottrarsi sia alle voci, sia alle pressioni di molti amici del Pd, arriva a questo punto. Se il risultato delle Europee fosse nero per i dem, inevitabilmente si aprirebbe una discussione sul nuovo corso “schleiniano”, sulla sterzata a sinistra impressa dalla segretaria. E inevitabilmente i malumori, i dubbi, le perplessità che anche ora ci sono, ma vengono taciute per disciplina di partito e per il calcolo che non conviene segare il ramo dove tutti stanno, emergerebbero. Perché i dubbi, ovvio, ci sono. Ci sono soprattutto tra i riformisti, che si chiedono se questo spostamento a sinistra compensa i voti persi al centro. Le perplessità si addensano sulla politica estera e si sono visti mercoledì nel voto sulle risoluzioni per l’Ucraina. Ma anche sulla politica economica (vedi la posizione contro il mercato libero) e sulla giustizia (abuso di ufficio).

 

 

 

Gentiloni è, ipso facto, una riserva per il Pd. Per il suo passato di ex ministro degli Esteri, di ex premier, ora di commissario dell’Unione europea. È l’esponente del Pd con i galloni più alti. Ovvio che se torna in Italia ed è libero, diventa, per forza, una risorsa. A prescindere dalle sue intenzioni. Ha credenziali in Europa e ottimi rapporti a Roma. Conosce la macchina di Bruxelles, quella di Palazzo Chigi e del Parlamento. Ed è forse l’unica persona, al mondo, che può parlare con Matteo Renzi, Carlo Calenda, Elly Schlein e perfino Giuseppe Conte in toni amichevoli. Ovvio che, in tanti, guardano a lui come una via di uscita, come a un possibile salvatore, se le cose si dovessero mettere male.

Del resto, che i problemi ci siano, non è un mistero. Non a caso anche al conclave a porte chiuse convocato a Gubbio per la prossima settimana, nell’hotel di lusso di Marc Mességué, un tema è proprio l’identità del Pd. Detto in parole povere, il problema è come mantenere questa virata a sinistra senza farsi sorpassare da Conte. I dubbi, peraltro, attraversano un po’ tutte le correnti, da destra a sinistra. Non a caso Andrea Orlando sta meditando di candidarsi in Liguria e abbandonare la palude romana. I travagli dei riformisti sono noti. Sulla politica estera, Guerini è in sofferenza da mesi e non manca di farlo notare. In più la scelta di Stefano Bonaccini di non differenziarsi quasi mai pubblicamente dalla linea della segretaria, in nome dell’unità, non convince molti che lo hanno sostenuto. Ma anche il presidente del Pd comincia a essere stanco. Come dice una fonte informata, «Bonaccini rischia di non avere né il terzo mandato, né di candidarsi alle Europee perché se si candida capolista Schlein, è chiaro che lui non può correre da secondo».

 

 

 

Come se non bastasse, si è aggiunta la posizione del Nazareno sull’abuso d’ufficio, che ha fatto imbestialire i sindaci del Pd, molti dei quali, peraltro, sono pronti a candidarsi alle Europee. Le correnti aspettano, ma si posizionano. Non è passato inosservato il silenzio di Michele Emiliano, uno che in genere non manca di far sentire la propria voce. Così come è in fase di riflessione Dario Franceschini, primo sponsor di Schlein. Il dilemma è sempre quello: funziona o no? La direzione impressa dalla nuova segreteria, chiesta a gran voce nelle primarie, allarga i consensi o li restringe? A dirlo possono essere solo gli elettori. Poi, si vedrà. 

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