Roya, la lezione a Boldrini e Co.: cosa fa dopo 74 frustate
«Questa mattina ho ricevuto la convocazione dell’ufficio delle esecuzioni perla sentenza di 74 frustate che mi hanno comminato. Ho contattato prontamente il mio avvocato e insieme siamo andati al tribunale del 7° distretto (di Teheran). Entrando, ho scelto di togliermi l’hijab. All’interno della sala, dalla scala provenivano gli echi d’angoscia di una donna, probabilmente anche lei stava aspettando la sua esecuzione». Questo è il racconto di Roya Heshmati, condannata in Iran per non aver indossato il velo; queste righe di fredda ed eroica sofferenza dovrebbero essere lette da ogni femminista occidentale perché si renda conto che ciò che da noi viene spacciato per libera scelta si tratta in realtà di un abuso, un simbolo di soggezione sociale e di imposizione religiosa.
In Iran indossare l’hijab è severamente obbligatorio, le alternative sono il nerbo o la prigione. In alcuni casi entrambi o perfino la morte, quando all’aguzzino scappa la mano, come nel caso di MahsaAmini. Proprio come quest’ultima Roya è curda, 33 anni, nata e cresciuta a Sanandaj. Si è trasferita a Teheran e come tante altre donne della sua età in Iran è un’accesa attivista contro l’uso obbligatorio dell’hijab. Roya dunque è una femminista, ma di quelle vere, si batte per la parità dei sessi nel suo Paese che è cosa ben più lontana di quanto si possa immaginare da noi in Occidente, lotta per la giustizia e ama la libertà e i viaggi, come dimostrano alcune foto a Roma sulla sua pagina Facebook.
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«Roya, ripensaci. Le ripercussioni delle frustate dureranno a lungo», gli dice l’avvocato mentre entrano in tribunale. «Un dipendente mi ha suggerito di indossare il velo per evitare problemi. Gli ho risposto che ero lì proprio per quello e che non avrei ceduto». Anche all’ufficiale dell’esecuzione, «con fermezza», ha riferito che non avrebbe indossato il velo. Quindi «sono arrivate due donne che indossavano il chador e mi hanno messo una sciarpa sulla testa. Ho resistito, rimuovendola più volte, ma loro hanno insistito. Ammanettandomi da dietro, hanno continuato a mettermi la sciarpa sopra la testa» prosegue Roya raccontando di come mentre raggiungevano un’altra camera una delle due donne le fece capire tutta la sua comprensione sospirando un inequivocabile «lo so, lo so». Erano arrivati. «La porta di ferro si aprì cigolando, rivelando una stanza con pareti di cemento» racconta la ragazza. «In fondo c’era un letto dotato di manette e fasce di ferro saldate su entrambi i lati. Al centro della stanza c’era un dispositivo di ferro simile a un grande cavalletto, completo di alloggiamenti per le manette e una legatura di ferro arrugginito. Inoltre, dietro la porta erano posizionate una sedia e un tavolino, su cui erano poste una serie di fruste. Assomigliava a una camera di tortura medievale completamente attrezzata».
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Il giudice insiste. «Stai bene? Non hai problemi?» chiede inizialmente, «sono con voi, signora!» le dice alzando la voce di fronte al silenzio insistente di Roya. «Il boia mi ha ordinato di togliermi il cappotto e di sdraiarmi sul letto. Ho appeso il cappotto e il velo alla base del letto di tortura». Poi ha insistito ancora e inutilmente: «Rimetti il velo! Metti il Corano sotto il braccio e fai quello che devi fare». Fino a che non è intervenuta la donna con il chador, la pietosa, «per favore, non essere testarda». Tutto ormai è pronto, «il boia prende una cintura di cuoio nero e avvolgendola attorno alla mano si avvicina al letto». «Non colpire troppo forte», dice il giudice, ma le frustate arrivano inesorabili e dolorose, sulle spalle, sulla schiena, i fianchi, le gambe. «Io cantavo in silenzio: “In nome della donna, in nome della vita, gli abiti della schiavitù saranno stracciati, la nostra notte nera spunterà e tutte le fruste saranno tagliate...”». L’inno di libertà delle donne curde. Roya è uscita senza mai indossare il velo, il giudice le ha consigliato di andare a vivere all’estero. Almeno per il momento. Queste sono le femministe che ci piacciono.
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