Riforme

Centralisti e federalisti: siamo alla battaglia finale?

Francesco Carella

È possibile utilizzare molte chiavi per leggere la storia politica dell’Italia dal 1861 in avanti, ma ve n’è una legata alla dualità centralizzazione/decentramento che permette di fare luce su come il tema del federalismo abbia attraversato più di centosessant’anni di storia unitaria non riuscendo a trovare una giusta composizione. Infatti, già nel maggio 1860 (otto mesi prima della proclamazione del Regno d’Italia avvenuta il 17 marzo 1861) il ministro dell’Interno del Regno di Sardegna, Luigi Carlo Farini, sosteneva «le ragioni di un’efficace declinazione dell’autorità dello Stato con la libertà di quelle più vaste entità poste al di sopra delle province e sotto lo Stato, ossia le regioni». Incassò il consenso di Cavour, ma ricevette il disco rosso della Commissione istituita presso il Consiglio di Stato che escludeva «ogni possibilità legislativa per altri enti».

Il suo successore, Marco Minghetti, nei primi mesi del 1861 presentò in Parlamento, considerando le diversità preunitarie, un progetto che prevedeva un’articolazione istituzionale di tipo federativo. Non ebbe miglior fortuna. La maggioranza parlamentare scelse la linea della centralizzazione dei poteri nel timore, in parte storicamente fondato, che il giovane Stato non avesse strumenti sufficienti per controllare le possibili spinte centrifughe. Nondimeno, l’idea che il decentramento di alcuni poteri potesse agevolare il percorso di modernizzazione del Paese non cessò di essere presente nel dibattito politico-culturale sia nell’Italia liberale che nella Repubblica. In tal senso, nei primi decenni del Novecento si batterono meridionalisti della caratura di Gaetano Salvemini, per il quale non si poteva prescindere dalle «differenze di storia, territorio e cultura fra il Nord e il Sud», e di Don Luigi Sturzo. Questi individuò anche i settori da svincolare dall’autorità centrale nei «lavori pubblici, scuola, agricoltura, assistenza».

PERFINO GRAMSCI
La prospettiva dell’autonomismo svolse, altresì, una funzione aggregante fra i gruppi di opposizione al fascismo, dai repubblicani ai liberaldemocratici, dai socialisti ai comunisti. Finanche Antonio Gramsci in una lettera del 1923 sostiene che «l’unità d’azione debba inverarsi nella parola d’ordine Repubblica federale degli operai e dei contadini».
Mentre nei Quaderni di Giustizia e Libertà (n. 6, 1933) si chiarisce che il Movimento pensa «a uno Stato federale centrale che sia il risultato dell’unione di altri enti locali sovrani anch’essi ma in forma minore. La sovranità popolare è esercitata, quindi, in alto e in basso con differenti forme di competenza e di rappresentanza».

ALLA COSTITUENTE
A rileggere i resoconti stenografici dell’Assemblea Costituente si scopre che la riflessione sui poteri da trasferire nei territori fu presente, in modo non marginale, nel momento in cui si trattava di disegnare una nuova architettura per lo Stato democratico. Prevalsero, però, i timori che la stabilità della neonata Repubblica potesse essere messa a rischio dalla presenza di un’accentuata divisività fra le maggiori famiglie politiche. Pertanto, tutto finì ancora una volta nel cassetto. Negli ultimi decenni molti tentativi sono stati fatti per meglio equilibrare il pendolo della decisione pubblica fra centro e periferia con risultati mediocri a causa delle persistenti divisività fra le forze politiche. Fra pochi giorni verrà avviata la discussione sul Ddl che prevede l’autonomia differenziata presentato dal ministro per gli Affari regionali e per le autonomie, Roberto Calderoli. La speranza è che un argomento nato prima dell’Unità e che ha attraversato arricchendosi di contenuti oltre un secolo e mezzo di storia nazionale riceva, finalmente, la giusta attenzione da parte del Parlamento.