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Sinistra, le priorità delle parlamentari: "Come dovete chiamarci"

Salvatore Dama
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Finirà così. Che un giorno toccherà cambiare anche il nome del Senato. Palazzo Madama non va più bene. Le madame, nella tradizione coloniale, erano le concubine del maschio bianco, etero, benestante. Il paradigma della virilizzazione della società. Strano che nessun woke ci abbia ancora pensato. In attesa che accada, ecco i fatti: le senatrici della minoranza sono in rivolta. Perché vogliono essere chiamate così: “senatrici”. E non senatori. In testa al corteo di protesta c’è Aurora Floridia, dell’Alleanza Verdi Sinistra. Bene. Chi è quel rottame della mascolinità tossica che si è permesso di declinare la desinenza sbagliata? In realtà è una donna pure lei. Già. Ma leggiamo la denuncia: «Nel corso della seduta della Terza Commissione, la presidente Stefania Craxi mi ha ripetutamente chiamata “senatore” e non “senatrice”, nonostante io abbia fatto chiaramente presente che in quanto donna volevo essere chiamata al femminile. Ciò non è accaduto solo a me, ma anche a molte altre colleghe, in varie occasioni».

 

Il patriarcato regna nella Camera Alta. Sicché Floridia ha scritto una lettera al presidente del Senato Ignazio La Russa per far sì che il dominio degli uomini tramonti e finiscano le discriminazioni lessicali. La battaglia ha unito «tutto il gruppo Avs, Pd, M5s e singoli parlamentari di Italia Viva, Autonomie e Azione», 76 senatori e senatrici. Random: Ilaria Cucchi, Susanna Camusso, Pier Ferdinando Casini, Dario Franceschini, Beatrice Lorenzin, Simona Malpezzi, Stefano Patuanelli e tutti gli altri. «Visti i reiterati episodi di discriminazioni di genere nell’uso del linguaggio», i firmatari della lettera chiedono a La Russa un intervento perché, nell’ambito dei lavori in Aula e nelle Commissioni, «venga sempre garantito il rispetto del linguaggio di genere e più nello specifico, venga riconosciuto il diritto di ogni senatrice a essere chiamata, per l’appunto, «senatrice» e non «senatore». Dice: ci sono temi più importanti che definiscono la disparità tra uomo e donna. Sbagliato: «Non è una questione solamente formale», precisa Floridia, «perché la lingua che usiamo veicola non solo significati ma anche valori e giudizi culturali che spesso possono rafforzare gli stereotipi. Il rifiuto da parte di figure istituzionali, come i presidenti di Commissione, di usare la desinenza femminile, specie se richiesto esplicitamente dall’interessata, risulta essere, oltre che sgradevole, del tutto fuori dal tempo».

 

 


Da oltre 10 anni l’Accademia della Crusca ribadisce «l’opportunità di usare il genere grammaticale femminile per indicare ruoli istituzionali, la ministra, la presidente, l’assessora, la senatrice, la deputata ecc. La decisione o il rifiuto di usare i nomina agentis declinati al femminile rappresenta una scelta individuale che ha delle ricadute potenzialmente non indifferenti sulla progressione dell’emancipazione femminile nella nostra società». La desinenza sbagliata, secondo la senatrice di Avs, è la prima goccia. Dal lessico si passa alla prevaricazione. E poi peggio ancora: «L’utilizzo del linguaggio di genere risulta essere un alleato irrinunciabile nella battaglia per l'eliminazione della violenza contro le donne e sarebbe un vero peccato se il Senato della Repubblica rimanesse arretrato in posizioni del tutto anacronistiche». In tutto ciò, sul banco degli imputati, ripetiamolo, c’è una donna: Stefania Craxi. Che si dice «stupefatta per la polemica». Chi conosce «la mia storia» può valutare «quanto sia infondata questa accusa».

 

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