Silvana Sciarra difende la "verità di Stato" (e la Consulta nasconde il dissenso)
L’educazione innanzitutto. Qui si scrive di Silvana Sciarra, sino a sette giorni fa presidente della Corte Costituzionale. Lo si fa perché Sciarra, in una lunga intervista apparsa ieri sul Corriere della Sera, si è occupata di ciò che Nicolò Zanon, sino a sette giorni fa vicepresidente di quella Corte, ha detto in un colloquio a Libero, sebbene Sciarra non abbia avuto l’educazione e la correttezza di citare Libero e Zanon. Lasciando così i suoi lettori all’oscuro su chi sia, e dove abbia parlato, l’ignoto personaggio che ha manifestato «dissenso» riguardo alla sentenza della Consulta sul caso Regeni. O criticato la decisione di dichiarare incostituzionale il diniego automatico del permesso di lavoro per gli stranieri colpevoli di certi reati. O ha chiesto di rendere pubblica l’«opinione dissenziente» dei giudici costituzionali che non si riconoscono nelle decisioni della maggioranza del collegio, come avviene nella Corte suprema degli Stati Uniti. Di tutte queste cose, Sciarra ha parlato guardandosi bene dall’avvertire che stava rispondendo a ciò che Zanon aveva detto a Libero.
Educazione e correttezza verso i lettori di Libero impongono però di adottare nei suoi confronti un metro diverso da quello che ha usato lei. E dunque sì, l’intervista della presidente emerita della Corte Costituzionale al quotidiano di via Solferino merita di essere citata, se non altro perché chiude il cerchio: conferma la diagnosi fatta da Zanon, la tendenza della Consulta ad ergersi come «un monolite culturale dedito alla realizzazione di ben determinate scelte di politica legislativa». Scelte di sinistra, in definitiva, come è di sinistra Sciarra, che fu eletta dal parlamento in quota Pd. Come lo era Giuliano Amato, presidente della corte prima di lei, e come lo è il suo probabile successore, Augusto Barbera. E come lo sono quasi tutti i giudici costituzionali nominati dal Quirinale negli ultimi decenni (bravo è stato Sergio Mattarella a mettere al posto di Zanon un giurista non progressista come Giovanni Pitruzzella).
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Magari Sciarra, con la sua intervista, non ha davvero «scelto l’agone della politica», come ipotizza Maurizio Gasparri, ma da ieri è un’altra illustre portabandiera del vasto mondo di poteri non elettivi che vedono nel governo attuale un pericoloso sovvertitore dello status quo. Ovvero di una strana democrazia in cui le elezioni per il rinnovo del parlamento sono un momento tutto sommato secondario della vita istituzionale, perché a contare davvero non è chi scrive le leggi, ma chi ha il potere di interpretarle, correggerle e cancellarle.
Affinché le cose continuino così è necessario difendere la “verità di Stato”: gli italiani non devono sapere che qualcuno di quei quindici giudici, talvolta, la pensa diversamente dagli altri. «Rendere pubblici i pareri contrari contribuirebbe alla strumentalizzazione delle pronunce», sostiene Sciarra, «perché la speculazione sull’orientamento dei giudici finirebbe per caratterizzarle politicamente». E dal suo punto di vista è pure comprensibile: in un organismo nel quale i conservatori sono da sempre una minoranza, impedire che si sappia che su certi casi hanno opinioni differenti rende molto più facile il lavoro di tutti gli altri, li deresponsabilizza.
Eppure proprio il dibattito che lei, senza citarlo, ha avviato con Zanon, conferma quanto sarebbe utile che questo avvenisse ogni volta, magari all’indomani della pubblicazione di una sentenza e non dopo mesi o anni. Meglio la trasparenza di una neutralità cui non crede nessuno e contraddetta dai fatti. Dire, come fa lei, che la Corte «non è e non è mai stata politicizzata», che «le inclinazioni di ciascun giudice restano fuori dalle decisioni», fa a pugni con i curricula e le idee dei giudici, che non vengono da un altro pianeta e dei quali si sa più o meno tutto. Anche perché quelle idee ce le ricordano loro stessi ogni volta che parlano in pubblico. Vale pure per lei, che si schiera contro la proposta di premierato avanzata dal governo, perché - dice al Corriere contiene «il rischio di indebolire la funzione di garanzia del presidente della repubblica». Ragionamento secondo il quale il popolo non potrà mai eleggere il capo dello Stato (sarebbe di parte e non «di garanzia») e nemmeno il primo ministro, visto che la legittimazione diretta ricevuta dagli elettori lo rafforzerebbe dinanzi al capo dello Stato. Stavolta, quindi, le cose sono molto più semplici di come le spiegava Tancredi al principe di Salina: se si vuole che tutto rimanga com’è, bisogna che nulla cambi. A palazzo Chigi, al Quirinale e alla Consulta.
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