Diritto di veto, quanti mandarini frenano la politica
In questi anni, specie in Italia, elettorato del centro-destra in testa, si sono presentati in parallelo due grandi mal di testa. Il primo ha a che fare con la disillusione di molti di fronte a diverse scelte dal governo Meloni. Il leit-motiv è più o meno sempre lo stesso: perché quando la destra è al potere, non fa alla fin fine cose molto diverse dalla sinistra? Dove è la (vera) svolta sulla politica economica? E quella sull’immigrazione? Con l’inevitabile sconforto tra gli elettori, crescita di sfiducia nei confronti della politica incluso. Il secondo mal di testa è legato alla constatazione del grande potere esercitato dai tecnocrati: e non parliamo qua solo di Mario Draghi (che dal di fuori di ogni logica di competizione politica si è ritrovato all’improvviso catapultato alla presidenza del consiglio), ma del crescente ruolo svolto dai grand commis in tutte le loro varianti.
IL CASO APOSTOLICO - Pensiamo alla recente querelle suscitata dalla decisione del tribunale di Catania nella figura della giudice Apostolico, che rappresenta niente altro che la punta di un iceberg in cui alcune leggi o financo articoli costituzionali, come quello relativo al diritto all'asilo, vengono di fatto (re)interpretati con ampio margine di arbitrarietà dal giudice di turno, senza che questo provochi alcuna reazione politica degna di nota. E anche qua, i “ma allora il ministro Nordio che fa?”, si sprecano. Il punto è che questi due mal di testa devono essere visti assieme, perché è solo dalla loro intersezione che possiamo capire un po’ meglio la realtà che ci circonda, incluso il “che fare” di leninista memoria. A questo riguardo, ci viene in aiuto una delle più importanti teorie sviluppate negli ultimi 30 anni dalla scienza politica, ovvero la teoria degli attori dotati di potere di veto. Chi sono questi attori? Quelli il cui assenso è richiesto per modificare lo status-quo. Ad esempio, in Italia per promulgare una legge (che modifica per definizione sempre qualunque status quo) è necessario l’assenso di almeno due attori con potere di veto: le due camere del parlamento.
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Perché è allora utile questa teoria? Perché ci dice due cose ben precise. Primo: al crescere del numero degli attori con potere di veto, e all’aumentare della loro distanza ideologica, diventerà sempre più difficile avere la possibilità (politica) di riuscire a modificare lo status quo. Insomma, l’esito è il sostanziale immobilismo decisionale. E l’Italia in questo quadro come è messa? Beh, gli attori con potere di veto si sprecano dalle nostre parti.
Perché oltre al governo, ai partiti entro al governo, alle due camere, c’è da aggiungere la Corte Costituzionale su diverse materie, senza poi dimenticare anche le regioni e soprattutto, da almeno 30 anni a questa parte, i due veri elefanti nella stanza: ovvero il Presidente della Repubblica con un potere che negli anni si è via via intensificato de facto e ovviamente l’Ue, “vincolo esterno” annesso. Il “ce lo chiede l’Europa” non è infatti altro che un modo sofisticato per dire che se non c’è l’assenso della Commissione, allora non se ne fa nulla, perché la Commissione eserciterebbe per l’appunto il suo (legittimo) potere di veto.
Ma nel caso italiano non è solo che sono tanti questi attori con potere di veto, il problema è che hanno anche preferenze politiche assai distanti tra di loro (a meno di non considerare “vicine” le preferenze del governo Meloni, quelle più volte espresse dal Presidente Sergio Mattarella e quelle della Commissione o del Parlamento Europeo). Da qua l’impossibilità di qualunque governo italiano, in particolare espressione di un maggioranza moderata o conservatrice come vogliate chiamarla, di fare non tanto qualche cosa di “rivoluzionario”, ma anche e solo di “eccentrico” rispetto ad una linea già pre-definita.
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Il risultato, come nelle riunioni di condominio, è infatti nel 99% dei casi la “non-decisione”. L’aspetto cruciale però è che questo immobilismo non è neutrale rispetto al potere esercitato ad esempio dai giudici, tornando a quello che dicevamo all’inizio. Tutt’altro. Lo incentiva. Ed è questa la seconda indicazione che ci proviene dalla teoria da cui siamo partiti. La discrezionalità della burocrazia in senso lato si avvantaggia di questa situazione.
I GIUDICI - E così non stupisce che i giudici invece di seguire il saggio consiglio di Sallustio per cui «tutti quelli che devono deliberare su questioni dubbie, devono mantenersi immuni dall’odio come dalla simpatia, dall’ira come dal sentimentalismo», scelgono al contrario spesso di lasciare spazio alle proprie inclinazioni ideologiche, generando decisioni discrezionali. E perché hanno un incentivo a farlo? Perché anticipano che comunque il potere politico ben difficilmente riuscirà a reagire con efficacia a tale decisioni di parte, ad esempio facendo passare una nuova legge. È già tanto infatti che riesca a mettersi d’accordo una volta per fare qualche cosa, dati i vincoli di cui sopra. Figurarsi due o più volte. Ne deriva che anche iniziative encomiabili per contrastare la politicizzazione del potere giudiziario, come la proposta della divisione delle carriere, rischia di finire per essere il solito dito dietro cui si nasconde la luna. Perché se non si affronta il primo problema, il secondo non scomparirà di sua volontà.
Ecco quindi l’importanza di pensare sul serio a riforme istituzionali che abbiano l’obbiettivo di ridurre gli attori con potere di veto o che per lo meno facilitino l’allinearsi delle loro preferenze ideologiche (dalla diminuzione del potere del Senato all'elezione diretta del Presidente della Repubblica, giusto per citarne due). Insomma, sappiamo che sull’impalcatura dell’Ue poco si può fare (se non sperare in un qualche cambiamento significativo di formula politica a Bruxelles post elezioni di giugno); facciamo almeno qualche cosa su quella italiana. Per drenare la palude politica in cui siamo finiti. E per ridare spazio, e dignità, al voto degli italiani, limando al contempo le unghie alla tecnocrazia, poteri terzi inclusi.