Antonio Martino, la sua lezione: quei sedicenti liberali distruttori di finanze
"Liberisti e libertari dove siete?», ha domandato retoricamente qualche giorno fa Daniele Capezzone nel ricordo di Antonio Martino e delle sue proposte oggi più attuali di ieri, promettendo meritoriamente che Libero cercherà di tenerne accesa la fiaccola. Anche la rivista Storia contemporanea, numero 1/2023 uscito da poco, dedica il focus a «Martino, semplicemente liberale», con articoli di Francesco Perfetti e Raimondo Cubeddu corredati da una ricca antologia degli scritti di Martino. Il direttore editoriale del nostro giornale ha ragione. L’attualità del pensiero di Martino è nient’altro che l’attualità e l’indispensabilità del pensiero liberale, cioè di quella che definisco la «libertà dei liberali» per distinguerla davvero da chi adopera la parola con significati distorti o addirittura opposti. Il liberalismo di Martino era vero, naturale, cristallino, inassimilabile a quello spurio degli impostori e degli adulteratori, dei sedicenti liberali che, per quanto si sforzino di apparire genuini, tuttavia non riescono a nascondere la coda illiberale sotto la veste dottrinaria.
I FALSI E I RILUTTANTI
«Più pericolosi di questi liberali, falsi o ipocritamente convertiti, i quali sono riconoscibili senza troppe difficoltà, Antonio Martino smascherò la categoria dei liberali riluttanti, molto più subdola e numerosa, che infesta il panorama politico italiano dopo il tramonto del “sol dell’avvenire”. «Ogni 100 euro di spesa pubblica ha incrementato di soli 30 centesimi il Pil» ha stabilito l’Upb (Ufficio parlamentare del bilancio), esempio dell’ennesima sentenza di condanna non solo di tutti i keynesismi, anche riveduti e corretti, ma anche degli apologeti “akeynesiani” del deficit spending, un levigato anglicismo adoperato in sostituzione dell’espressione italiana che suona meno accattivante: spesa a debito. Martino avversò sempre il punto essenziale di costoro, secondo cui lo Stato può spendere quasi a volontà (whatever it takes?) pure soldi che non ha. Milton Friedman, di cui fu allievo e seguace, ammonì invano i governanti che «nessun pasto è gratis». Il liberale riluttante ama definirsi liberale tout court, ma senza ragione. Perché? Perché in cuor suo più che nella sua mente è convinto che la spesa pubblica sia pur sempre un investimento per i privati. Però non distingue bene tra quanto spetti alla “politica” e quanto alla “economia”.
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DEBITO BUONO E CATTIVO
Il rapporto tra politica ed economia è soggetto a due regolarità, ma non per il liberale riluttante. La prima dice: più lo Stato spende, più aumenta la probabilità di dissipare i tributi e i prestiti, cioè il risparmio, fonte di ricchezza comune. La seconda afferma: più lo Stato spende a debito, più la dissipazione aumenta. Il liberale riluttante dimentica un principio basilare, vigente nel collettivismo e nel capitalismo, e pure nel cristianesimo: l’investimento è aleatorio e l’alea viene ridotta soltanto se l’investitore rischia in proprio. La realtà effettuale lo dimostra e la “parabola del seminatore” lo spiega bene.
All’insegnamento della Societas Iesu dovette ispirarsi il “gesuita” (educato nel liceo dei Gesuiti, intendo!) Mario Draghi nel discorso sul «debito buono» e «debito cattivo» alla platea di Comunione e Liberazione, non a caso. Vi era sottintesa la supposizione che il decisore politico scegliesse «al meglio», non «alla meglio«. Purtroppo il liberale riluttante, tumido di economia moderna (sic!), smaniante di apparire à la page, identifica la spesa pubblica con l’investimento pubblico. Scambia l’intenzione con il risultato, l’atto con l’effetto, anche dove, all’evidenza, si tratta di spesa improduttiva in ogni senso. Helmut Schmidt, cancelliere tedesco, diceva che «gli investimenti di oggi sono i profitti di domani e i posti di lavoro di dopodomani». Eppure era socialdemocratico, nemmeno liberale di nome. Però sapeva distinguere bene e vedeva lungo come un liberale di fatto.
AUTOGIUSTIFICAZIONI
Lo Stato, indebitatosi irragionevolmente fino al collo, è portato ad autogiustificare l’ulteriore debito con la necessità di tamponare se non rimediare eccezionalmente alle conseguenze del debito precedente. Così l’improvvida politica del passato costituisce la falsa giustificazione di un improvvido rimedio: la finanza straordinaria diventa una regola ordinaria di finanza pubblica. Il liberale riluttante non vuole sentirsi cattivo ed egocentrico ma stare con quelli che gl’illiberali hanno catalogato come buoni e altruisti. Antonio Martino, ridicolizzando la fatale presunzione dei “nuovi” economisti, apparve a tanti il campione dell’individualismo e dell’egoismo capitalistico, mentre credeva con Ayn Rand che «una società fondata su un altruismo ugualitario ed ostentato va a finire sempre nella miseria e nella dittatura».
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