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Napolitano, Capezzone: così ha commissariato l'Italia nel nome della Ue

Daniele Capezzone
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Giorgio Napolitano merita profondo rispetto. E il rispetto esige a sua volta sincerità e assenza di untuose ipocrisie. Perché in Italia è così raro che si dica dei morti quel che si diceva su quelle stesse persone quando erano vive? Come scrisse mirabilmente Leonardo Sciascia citando un’espressione di Luigi Pirandello, se i morti sono «pensionati della memoria», occorrerebbe «pensionarli di verità, non di menzogna». L’uomo che ci ha appena lasciato è stato indubbiamente un assoluto protagonista della politica e delle istituzioni, capace di perseguire disegni ambiziosi e anche di tenere la scena in modo straordinariamente fascinoso ed efficace. Ma, anche al di là della sua estrazione ideologica comunista, della sua appartenenza al Pci, della sua adesione (rinnegata solo a molti decenni di distanza) anche alle pagine più cupe della repressione sovietica, ciò che non può essere dimenticato è l’operazione che Napolitano ha lucidamente tentato – e purtroppo largamente realizzato – dal Quirinale.

IL VERO REGISTA
Si tratta di una sorta di non dichiarato ma ferreo commissariamento della Repubblica. Napolitano immaginò per sé, un po’ per necessità e un po’ per scelta, il ruolo di vero regista della politica italiana, di decisore ultimo di ogni partita rilevante. E purtroppo perseguì questa scelta – di per sé assai discutibile – senza l’obiettivo di una piena e definitiva pacificazione nazionale. Questa riconciliazione nazionale, ad esempio, sarebbe potuta passare anche attraverso un gesto di clemenza per unire il paese, rilegittimare Silvio Berlusconi agli occhi di tutti, e insieme incoraggiare il governo di larga coalizione insediatosi nel 2013 a fare ciò per cui le grandi intese dovrebbero teoricamente servire, e cioè un atto di coraggio, in primo luogo rispetto a vincoli europei troppo stringenti.

E invece il Presidente operò diversamente: negò ogni legittimazione a Berlusconi, assistette impassibile all’accelerazione che altri determinavano rispetto alle sue vicende giudiziarie, e contestualmente incoraggiò una totale accettazione dei diktat Ue. Perché, a mio avviso? Perché a quel punto gli obiettivi erano due: su un pianodi fondo, irrobustire e sistematizzare la presa sull’Italia del vincolo esterno europeo; e sul piano interno, guadagnare tempo per mettere progressivamente fuori gioco Berlusconi e determinare il passaggio a un’altra fase politica. Un disegno concepito per eliminare il Cav. e liquidarlo come una “parentesi”: e Napolitano, a mio avviso, fu l’artefice politico principe di questo tentativo, attraverso l’uso di più o meno consapevoli strumenti (da Gianfranco Fini ad Angelino Alfano, per citarne solo due).

Insomma, la triste realtà è che anche il migliorista Napolitano finì per aderire alla medesima logica delle altre vecchie componenti postcomuniste, o vi si adattò: subìre il climax giudiziario, assumere come priorità l’eliminazione politica di Berlusconi, e sacrificare su quell’altare ogni altro obiettivo. L’antico e autorevole militante comunista l’ha naturalmente negato fino alla fine, ma nessuno mi toglie la convinzione che Napolitano, a un certo punto, abbia “introiettato” come propria missione l’idea di divenire l’uomo che, in modo determinante, sarebbe riuscito a estromettere Berlusconi dalla scena pubblica, e contestualmente a normalizzare l’Italia, nel senso di agganciarla alla direzione scelta da Parigi-Berlino-Bruxelles.

DEFENESTRAZIONE
Non voglio essere reticente, e torno alla defenestrazione del governo nel 2011. Voglio citare le documentate rivelazioni dell’ex premier spagnolo Zapatero e dell’ex segretario Usa al Tesoro Geithner. Per ciò che riguarda queste ultime personalità, non si tratta di due passanti o anche solo di due testimoni, ma di due protagonisti diretti: ed entrambi, per iscritto e senza alcuna smentita, hanno messo nero su bianco il racconto di pressioni europee, nel 2011, per la cacciata del governo Berlusconi, cioè di un esecutivo – bello o brutto che fosse – scelto liberamente dai cittadini italiani. E rimane deludente il fatto che il presidente della Repubblica di allora, dinanzi a rivelazioni di questo tipo, si sia affrettato con uno striminzito comunicato a ridimensionare la pratica, a tentare di archiviarla sul nascere, a sopire e a smorzare. Come non comprendere che, a quel punto, in causa non c’era solo l’onore di Berlusconi, ma la dignità e l’autonomia nazionale?

Fece tristezza – all’epoca – il fatto che pure l’allora ministro degli Esteri Federica Mogherini cercò di liquidare la vicenda (una cosa che riguarda il passato, disse più o meno), mostrando (o fingendo) di non capire la portata della questione. Ma fece ancora più impressione la circostanza che un politico a tutto tondo come Napolitano si esprimesse più o meno come la Mogherini. Che fingesse di non cogliere che, se una cosa del genere era accaduta una volta, sarebbe potuta avvenire di nuovo. Un giornalista libero e liberale come Piero Ostellino, divergendo dalla linea editoriale del suo giornale, il Corriere della Sera, chiese ripetutamente conto al capo dello Stato di un simile comportamento. La risposta fu un eloquente silenzio. Sta di fatto che da allora è iniziato quello che vorrei definire l’esperimento italiano: un commissariamento de facto, un dolce ma costante allentamento del legame tra demos e kratos, tra cittadini e esercizio del potere, pur nel formale rispetto delle procedure parlamentari previste per la nascita dei governi. Una storia conclusa – per fortuna – con le elezioni del 25 settembre scorso. Ma che qualcuno spera di poter ripetere di nuovo, prima o poi.

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