Brandizzo, il Pd e Repubblica si ricordano degli operai solo quando muoiono

di Giovanni Sallustisabato 2 settembre 2023
Brandizzo, il Pd e Repubblica si ricordano degli operai solo quando muoiono
4' di lettura

Il titolo a tutta pagina su Repubblica di ieri costituisce un momento di sincerità improvvisa, per quanto inconsapevole, un lapsus giornalistico che cela un lampo di autocoscienza: «Erano operai». Pensa un po’, esistono ancora, e per la testata di riferimento del progressismo 5.0 (qui sta l’ammissione involontaria) è una notizia. 

Pensa un po’, Kevin Laganà, Michele Zanera, Giuseppe Sorvillo, Giuseppe Aversa, Giuseppe Saverio Lombardo, «erano operai», e non solo in quella maledetta mezzanotte, quando un treno che non doveva esserci li ha travolti, non erano operai solo quando hanno smesso di essere uomini. Erano operai il giorno prima e il giorno prima ancora, vivevano da operai, sudavano da operai, sognavano da operai, quotidianità novecentesca mista a ipermodernità social. Per Repubblica è una rivelazione, tanto che invia sul posto Maurizio Crosetti a raccontarla. «In quelle stanze ci sono le cose di sempre, come sessanta o settant’anni fa: il lavoro da cercare lontano, l’emigrazione, le periferie, i turni di notte, i pericoli immani, la fragilità di tutto».

Non sono scomparsi, dunque. Non sono le lucciole pasoliniane, esistono ancora, oltre il fortino metropolitano, si muovono, inseguono il lavoro lontano da casa, nessuna conference call, molte schiene spezzate, troppi futuri incerti. E il cronista allibito rivede in loro «l’orgoglio di portare a casa lo stipendio con la fatica e la perizia delle mani», come un reperto archeologico che improvvisamente si rianima, la storia è ancora cronaca e non lo sapevamo.

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Anche Gad Lerner, habitué dello yacht dell’ingegner De Benedetti, riscopre nella tragedia l’esistenza della classe operaia, in un reportage sul Fatto Quotidiano che è quasi un ritorno alle origini, all’operaismo verboso (accompagnato da concretissimo tenore di vita borghese) di Lotta Continua. E allora Gad scava nella vicenda dei «cinque operai spappolati come insetti sul parabrezza», lasciandosi scappare la frizione letteraria di fronte alla vita calpestata, si reca alla Camera del Lavoro di Vercelli, che incredibilmente è ancora in piedi, come in un romanzo di Guareschi, sermoneggia sul dramma di oggi e su quello di 16 anni fa alla Thyssenkrupp, che «sbattono in faccia a Torino e all’Italia intera la retrocessione del lavoro operaio».

La retrocessione rispetto alla retorica che spargeva nei suoi talk, forse: questo è lo stato, endemico e inaccettabile, del lavoro operaio da lustri, e sono stati lustri progressisti, visto che il Pd ha governato in dieci degli ultimi dodici anni.

Già, il Pd. Il Pd di Elly Schlein, la segretaria dal triplice passaporto e dalle priorità cristalline (ius soli, adozioni per le coppie omogenitoriali, “giustizia climatica” qualunque cosa voglia dire), di fronte a questo sbrego nell’anima e nel corpo della condizione operaia non trova di meglio che chiedere l’istituzione di un nuovo reato, una postilla nel Codice penale. «È depositata alla Camera una proposta di legge del Partito Democratico a mia firma che prevede l’introduzione del reato di omicidio sul lavoro», fa sapere Chiara Braga, uno dei nuovi-vecchi volti schleiniani. E poi c’è Elly in persona, certo, che detta la linea con una nota che porta il concetto di ovvietà a stadi e inesplorati: «Non possiamo essere un Paese in cui si continua a morire di lavoro o di stage». Grazie, abbiamo udito qualcosa di analogo al bar sotto casa, poi ci sarebbe la politica.

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Il fatto è che non la possono scomodare, la politica. Non possono farlo i giornaloni radical, non possono farlo i reduci sessantottardi stracotti, non può farlo la nouvelle vague arcobaleno del Pd. Perché la liquidazione della questione operaia è proprio, volenti o nolenti, ciò a cui si sono dedicati alacremente da tempo. Costruendo la nuova sinistra iper-politicamente corretta, terzomondista ma dal proprio attico in centro, “dirittista” a prescindere (per cui il diritto al lavoro e il diritto alla desinenza di genere si equivalgono, in una continua erosione relativista del termine), gretina perché più attenta al grado Celsius in più che al potere d’acquisto dei salari (o concentrata a scorgere un delirante nesso tra le due cose), multigender, multiculti, pochissimo incline a frequentare le volgari fabbriche. Una sinistra segnata da quella che il sociologo conservatore canadese Mathieu Bock- Côté ha battezzato «utopia diversitaria», ovvero da un’insana, incontrollata, tragicomica attrazione per il Diverso purchessia. L’immigrato esoticamente e paternalisticamente idealizzato, il non-eterosessuale a vario e ormai infinito titolo, addirittura l’oppresso dal clima. In ogni caso, mai il barbaro uomo occidentale, figuriamoci il retrogrado lavoratore occidentale, probabilmente inquinante e perfino privo di armocromista. Una creatura da scrutare asserragliati dentro la Ztl, scuotendo il capo e sorseggiando l’aperitivo antifascista. Fino a ricordarsi di esso, a ricordarsi dell’operaio, solo quando non è più lui, solo quando il lavoro volge oscenamente in morte. «Erano operai». Già.