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Guido Bertolaso, la lettera: "Militari negli ospedali oppure dovrà chiuderli"

Claudia Osmetti
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Adesso basta. Lo dice, senza mezzi termini, l’assessore al Welfare di Regione Lombardia, Guido Bertolaso. Dice: o arriva l’esercito o chiudiamo i pronto soccorso perché non se ne può più; sono inammissibili, sono inconcepibili, sono indicenti quelle aggressioni ai medici e agli infermieri e agli operatori sanitari. Sono tante, sono troppe. Sono una vergogna. «Se alcuni cittadini hanno bisogno del pronto soccorso e devono aspettare ore, è ingiusto e stiamo lavorando per ridurre i tempi di attesa», spiega il numero uno della Sanità lombarda, «ma allo stesso tempo non giustifica nessuno ad aggredire e insultare medici e infermieri che fanno il loro dovere in situazioni spesso di disagio e di fatica. Se l’esercito presidia i consolati e gli altri obiettivi sensibili con l’operazione “Strade sicure” perché non si prevede lo stesso servizio anche davanti agli ospedali? Se si chiede maggior sicurezza sui treni e nelle piazze, perché non si fa lo stesso per chi lavora negli ospedali garantendo uno dei più importanti diritti della persona che è la salute?».

Ecco, appunto. Le corsie far-west. Le risse che spesso nascono per un nonnulla, magari un’incomprensione, un attimo di stanchezza. I dottori che in tre anni, quegli anni là del Covid, quelli in cui giravano con i segni della mascherina sulla faccia e gli occhi scavati dalla fatica, sono passati dall’essere i nostri eroi col camice bianco a impersonificare l’oggetto delle più bieche minacce. C’è qualcosa che non quadra. Solo in Lombardia sono circa 60mila in tre anni, dal 2019 al 2021, le aggressioni subite dagli operatori sanitari. E, sostiene l’Agenzia di controllo del sistema sociosanitario, si tratta pure di un «fenomeno emergente e sottostimato»: cioè in crescita, cioè in aumento. Ogni anno i casi di violenza (quella fisica, scomputata dalla sorella verbale che sennò apriticielo) si registrano, in tutta Italia, nell’ordine dei 1.600.

 

«Abbiamo i medici e infermieri che vanno a lavorare con la paura di subire aggressioni. Non lo posso accettare. Alla fine, se non ci ascolteranno, chiuderemo i pronto soccorso e manderemo le persone a farsi curare ai commissariati e alle stazioni dei carabinieri». Non va bene, no. E non perché lo sottolinei Bertolaso (che però fa benissimo a riportare la questione al centro), ma perché non è civile. Non è giusto. Non è neanche tollerabile. Meno di una settimana fa, a Milano, un giovane medico di 33 anni del Policlinico è stato colpito senza motivo dal figlio di una sua paziente che lo ha insultato e riempito di botte. Ieri mattina, al nosocomio Pellegrini di Napoli, una donna che doveva ricevere dei punti di sutura ha preso a schiaffi l’infermiera e ha cercato di strangolarla. 

La settimana scorsa, al Caldarelli di Campobasso, in Molise, un uomo è dato in escandescenza, ha preteso una tac saltando il triage, ha alzato le mani e si è messo a urlare, al povero dottore che non sapeva più come gestire la situazione: «Ti ammazzo». «Sto scrivendo ai ministri dell’Interno (Piantedosi, ndr) e dalla Giustizia (Nordio, ndr). L’ho detto anche a Schillaci (Sanità, ndr): questa situazione deve finire», tuona, allora, Bertolaso, che si fa portavoce di mille istanze, mille richieste (l’ultima da parte dell’Anaoo, il sindacato di categoria che, in Calabria, ora chiede lo stato di emergenza sanitaria). 

 

«Non ci basta che in metà dei pronto soccorso ci sia la presenza di un solo rappresentante delle forze dell’ordine, se il governo non è in grado di darci quelle certezze allora ci diano i soldi per assumere vigilantes negli ospedali», continua Bertolaso. Perché loro, i nostri medici, i nostri oss, i nostri infermieri, sono lì apposta: per salvarci la pelle. Non per prendersi minacce o insulti o (peggio ancora) calci alla bisogna. E se non sono sereni va tutto di conseguenza. «Si percepisce che il personale non lavora tranquillamente», continua, infatti, Bertolaso, «è il nostro obiettivo: al governo chiediamo di considerare gli ospedali come strutture di priorità nazionale». Amen.

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