Il futuro di Daniela Santanchè è nella mani di Giorgia Meloni
Il problema politico vero è la procura. E la fuga di notizie verso i giornali complici, il ritorno delle «operazioni mediatico-giudiziarie», come le chiamano a palazzo Chigi. Perché, per quello che valeva, l’arrivo in parlamento del “caso Santanchè”, che nei desideri del Pd e del M5S doveva aprire la prima crepa nel governo, ha lasciato le cose come stanno. La ministra del Turismo si è difesa bene dinanzi ad un’opposizione ancora una volta divisa tra garantisti e forcaioli, e il centrodestra ha fatto quadrato attorno a lei: senza grande entusiasmo (tutti, tranne il presidente dell’aula Ignazio La Russa, avevano la faccia di chi avrebbe preferito essere in qualunque altro posto), ma anche senza far trasparire fastidio nei confronti della ministra e della situazione in cui si trova.
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Era solo il primo atto, però, e lì dentro lo sapevano tutti: maggioranza, opposizione e diretta interessata. Già mentre la Santanchè parlava in aula, era chiaro che il suo nome fosse stato scritto nel registro degli indagati, visto che nessuno della procura aveva smentito quanto pubblicato dal quotidiano Domani. E in serata è arrivata la conferma, seguita dalla notizia che Elly Schlein, sorprendendo anche molti dei suoi, si è impegnata a far votare al Pd la mozione di sfiducia individuale presentata dai Cinque Stelle. Della faccenda si tornerà quindi a parlare molto presto, e i toni non saranno quelli di ieri.
TUTTI CONVOCATI
Alla vigilia, previdente, il ministro per i Rapporti con il parlamento, Luca Ciriani, via mail aveva avvertito i colleghi di non fare scherzi: «Si richiede la presenza dei componenti del Governo domani, alle ore 15.00, in Aula Senato per l’informativa urgente del ministro del Turismo». Significava che l’appuntamento era importante per la tenuta dell’esecutivo. Anche se non era prevista alcuna votazione su ciò che Daniela Santanchè avrebbe detto, bisognava essere lì a dare prova di compattezza. Messaggi simili erano arrivati ai senatori della maggioranza dai capigruppo. Se Pd e Cinque Stelle vogliono colpire la Santanchè per ferire il governo, l’unica risposta possibile è mostrarsi uniti, senza fare distinguo ai quali gli avversari possano aggrapparsi. Così i banchi dell’esecutivo, sotto allo scranno della presidenza, erano affollati. Tutti giustificati i pochi assenti di peso: Giorgia Meloni a Varsavia, Carlo Nordio a Tokyo, Adolfo Urso impegnato a Montecitorio. Gli altri hanno risposto alla chiamata.
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Il momento del grande trasporto emotivo, però, non è ancora arrivato. Gli stessi senatori dell’opposizione hanno trascorso i quaranta minuti dell’intervento della Santanchè reprimendo sbadigli e smanettando su cellulari e tablet. Durante il suo intervento la ministra del Turismo ha incassato appena tre applausi, incluso quello finale; il più convinto quando, anziché difendere se stessa, ha guardato i senatori del Pd e detto che tra loro c’è chi l’accusa in pubblico, ma in privato la cerca per «prenotare e andare nei locali di intrattenimento che ho fondato». E al termine del discorso niente ovazioni e gesti camerateschi per lei, ma una tiepida compostezza. Gli alleati che hanno preso la parola per difenderla, come il forzista Pierantonio Zanettin e il capogruppo leghista Massimiliano Romeo, hanno fatto il loro compito, ma anziché entrare nel merito delle accuse e mettere la mano sul fuoco per l’innocenza della Santanchè hanno preferito insistere sul «principio di non colpevolezza fino a sentenza definitiva», denunciare l’ennesima fuga di notizie dalle procure ai giornali di sinistra e contestare l’abitudine «di essere sempre garantisti con i propri e giustizialisti con gli altri».
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Più che la Santanchè, insomma, hanno difeso lo Stato di diritto. «Una buona difesa d’ufficio», come è stata definita nei conciliaboli di palazzo Madama alla fine della seduta. Ci vorrà molto di più. Di ritorno da Varsavia, la Meloni si è irritata per il riapparire delle operazioni mediatico-giudiziarie rivolte contro un governo di centrodestra e ha confermato l’intenzione di far approvare al più presto la riforma disegnata da Nordio, che dovrebbe cambiare anche le regole dell’avviso di garanzia e della pubblicazione delle intercettazioni. Ma il problema politico resta: fino a che punto si può difendere un ministro indagato? Anche perché per farlo serve un animo battagliero che ieri non si è visto.
RISCHIO STILLICIDIO
Nessuno ha chiesto un passo indietro alla Santanchè, ma se per “spirito istituzionale”, come capita in questi casi, lei stessa dovesse decidere di farlo, nessuno si opporrebbe. Meglio ora - è il ragionamento che si inizia a fare nella maggioranza - che affrontare uno stillicidio che costringa l’esecutivo a stare sulla difensiva per settimane. Spunta persino il nome del possibile sostituto alla guida del dicastero del Turismo: Valentino Valentini, forzista, per anni accanto a Silvio Berlusconi. Certo, rischia anche la sinistra. Il renziano Enrico Borghi ha le sue ragioni quando dice che la mozione di sfiducia individuale annunciata dai Cinque Stelle «è un errore da matita blu», perché può ricompattare la maggioranza. Ma l’opposizione è già messa male, peggio di così non può ritrovarsi. Il governo e la presidente del consiglio, invece, hanno molto da perdere se sbaglieranno le prossime mosse.