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Europee 2024, il politologo Campi: "Accordi? Dopo il voto, intanto..."

Pietro De Leo
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Il centrodestra italiano verso le elezioni europee e il complesso scenario francese. Libero affronta tutto questo con Alessandro Campi, docente di dottrine politiche e saggista.

Salvini lancia un “patto” delle forze di centrodestra a livello europeo. Tajani, vicepresidente del Partito Popolare Europeo, risponde: «Mai con la Le Pen e Alternative für Deuschland». Nel centrodestra italiano ognuno rafforza la propria identità in vista delle elezioni europee, dove si vota con il proporzionale, oppure c’è un solco più profondo?
«Alle europee ognuno corre per sé. Le alleanze si fanno eventualmente dopo. Quella italiana inventata da Silvio Berlusconi non so quanto sia esportabile in Europa, dove i partiti popolari e le destre conservatrici hanno nei confronti dell’estrema destra populista un atteggiamento di assoluta chiusura. La Lega è un partito che nasce federalista e regionalista, che a lungo con Umberto Bossi si è definito antifascista. Ha quindi un dna diverso da forze come i lepenisti e soprattutto i tedeschi di Afd. Forse a Salvini converrebbe lasciare il gruppo Identità e Democrazia e cercarsi nuove affiliazioni internazionali. Se pensa di fare competizione da destra a Giorgia Meloni rischia, non tanto di mettere in crisi il governo, ma di confinarsi in uno spazio di malcontento e protesta».

Quanto è probabile un centrodestra europeo che vari la nuova Commissione?
«Sono state fatte diverse simulazioni: per quanto possano crescere le varie formazioni di destra difficilmente ci saranno i numeri per dare vita ad una nuova maggioranza con i popolari che escluda sinistra socialista e verdi. Lo scenario più plausibile è quello di un allargamento ai conservatori- ma non ai populisti - della maggioranza che attualmente governa l’Europa. Questo certamente influirà sull’agenda politica europea, penso ad esempio alle politiche per l’ambiente oggi improntate a un vero e proprio radicalismo ideologico. Lo stesso si può dire per l’immigrazione».

Si torna molto a parlare di Marine Le Pen. In Italia il sistema politico ha spesso “istituzionalizzato il dissenso”. Movimento Cinque Stelle, Lega, Fratelli d’Italia: partiti che intercettavano il malcontento, additati da una certa stampa come indigesti nelle istituzioni, poi hanno governato e governano in una fisiologica dialettica democratica. Le Pen, invece, è sempre stata “tenuta fuori” dalla guida del Paese. Questo che conseguenze ha avuto?
«In Francia c’è sempre stata una destra- quella repubblicana e gollista - che Alessandro per il fatto di aver lottato il nazismo e contribuito alla liberazione del Paese non ha mai voluto avere nulla a che fare con gli eredi o nostalgici di Vichy e del collaborazionismo. Questo spiega la barriera sempre eretta dalla destra contro l’estrema destra, che nel caso francese non è passata attraverso un processo di revisione ideologica come quello realizzato dal Movimento Sociale all’epoca di Fiuggi. Nelle democrazie è sempre bene cercare di costituzionalizzare le forze estreme, anche solo per depotenziarne la carica eversiva. Ma istituzionalizzare il dissenso non può significare accettare qualunque idea o programma o slogan».

La rivolta nelle banlieue in corso è un altro segnale dell’implosione del macronismo. Quando l’attuale presidente lasciò i socialisti per fondare il suo movimento di centro non mancò chi ci vide una suggestione simil-berlusconiana. Poi cos’è mancato?
«Macron ha costruito la sua fortuna sulla rovina dei partiti gollista e socialista. Si è proposto come un rinnovatore in salsa tecnocratica. Come uomo delle élite, non ha mai goduto della simpatia dei francesi, che lo hanno scelto essenzialmente come garante di un sistema che stava implodendo e in funzione anti-Le Pen. Ma le sue politiche sociali fatte di continui tagli hanno finito per alienargli anche il consenso di molti suoi sostenitori. La mia impressione è che non funzioni più un modello presidenziale privo di corpi intermedi e forme di mediazione sociale». 

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