Fausto Bertinotti contro Elly Schlein: "Non può salvare la sinistra"
«Aspetti un attimo che prendo la stiglia». Presidente, sta male? «Essenzialmente ho 83 anni, e questo pesa, specie se li hai vissuti a tavoletta. Nell’ultimo periodo poi mi si accavallano gli impegni, faccio troppe cose, comunque più di quel che dovrei».
Sta meglio lei o la sinistra?
«Io da tre anni ho la leucemia, la patologia che aveva Berlusconi, ma i medici mi dicono di trovarmi un altro male per morire, perché così posso andare avanti qualche decennio. La sinistra invece, in Europa ma soprattutto in Italia, è morta da un pezzo».
Chi l’ha ammazzata?
«È stato un suicidio. Si è costruita una prigione, ha sacrificato la propria ideologia e la propria capacità di proporsi come forza alternativa al mito della governabilità, o meglio della sua necessità assoluta di gestire il potere. Questo ha prodotto la corrosione dell’impianto politico e culturale, non solo del Pd ma di tutto lo schieramento, l’incapacità di leggere le trasformazioni della società e il conseguente distacco dell’elettorato».
Il Pd è morto anche di cieco europeismo?
«Gli dei accecano quelli che vogliono far perdere, dicevano i latini. L’europeismo era un’occasione mala sinistra ha confuso la speranza di un modello sociale diverso che i cittadini riponevano nella Ue con l’adesione incondizionata a un’Europa economicista fatta di parametri, numeri, dogmi. Un po’ come quelli che dicevano di lavorare per il socialismo e scambiavano l’Unione Sovietica per la terra del socialismo realizzato; invece era solo il socialismo reale. Diciamocelo, Maastricht non era Ventotene».
Il cielo azzurro della sinistra inizia e finisce negli occhi azzurrissimi di Fausto Bertinotti. Tutto intorno, solo nubi nere. Il fondatore, e per qualcuno anche affondatore, di Rifondazione Comunista ma anche dell’Ulivo di Prodi, si è ritirato da 15 anni, «passaggio necessario dopo la sconfitta del 2008» ricorda. «Mi assunsi la responsabilità della débâcle anche se il killer fu Veltroni, che impostò l’ultima settimana di campagna elettorale sul voto utile e si schiantò. Il guaio fu che non servì neppure a scongiurare la vittoria di Berlusconi». Di lotte fratricide, d’altronde, è piena la sinistra... Oggi il presidente si divide tra la sua Fondazione, “Cercare ancora”, la rivista bimestrale “Alternative per il socialismo”, un turbinio di presentazioni di libri, di conferenze, anniversari e cerimonie e anche qualche iniziativa più strampalata. «Ho appena finito di registrare un video per una coppia di compagni che si sposa. Canto ai matrimoni» scherza. Il ruolo di prete rosso, una sorta di Peppone benedicente, lo diverte molto più dell’analisi dell’attualità politica.
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Presidente, quanto è inguaiata la sinistra?
«Quanto o da quando?».
Non si è più ripresa dal 2008, quando per la seconda volta faceste cadere Prodi.
«Per il 2008 sono innocente. Furono i giudici ad attaccare Mastella. Il castello prese a franare da lì ma in realtà l’Ulivo era già finito nel 1998. La rottura del 2008 è irrilevante».
Perché finì l’Ulivo?
«Prodi scelse la via di Maastricht contro la prospettiva di un’Europa sociale indicata dall’allora presidente francese Jospin. Noi rompemmo sulla Finanziaria, mala caduta del governo si sarebbe potuta evitare, se Romano non avesse messo la fiducia. Era convinto di farcela... Anni dopo, Cossiga dirà che la crisi era legata anche al Kossovo perché gli Usa erano convinti che l’Italia non avrebbe sostenuto la guerra se al governo ci fosse stata ancora Rifondazione».
Ma se l’Ulivo finì nel 1998, per questioni economiche e geopolitiche, perché nel 2006 lei sostenne ancora Prodi?
«Detta brutalmente, una volta tieni, la seconda non puoi».
A cosa allude?
«Fu la risposta a un’istanza di sopravvivenza. Non puoi reggere due volte all’accusa di far vincere Berlusconi contro l’unione delle sinistre. Era una stagione di grandi movimenti e, sbagliando, pensavamo che il Parlamento avrebbe trovato una nuova centralità, anche per questo accettai la presidenza di Montecitorio. Ma si capì presto che non avevamo le gambe per andare avanti».
Giustizia sociale, giustizia tout court, guerra, globalizzazione: 25 anni dopo la sinistra pare ferma allo stesso punto...
«Non direi. Nel 1998 c’erano due sinistre. La prima, moderata, si illuse che la globalizzazione sarebbe stata foriera di magnifiche sorti progressive e non si avvide che invece stava vendendo l’anima al mercato e all’impresa avviandosi a trasformazione genetica. Allora però, anche nel Pd, c’erano voci dissenzienti, un dibattito. E poi c’era la seconda sinistra, la nostra, che affondava le proprie radici nel mondo operaio e nel comunismo ma stava lavorando a un progetto mondiale di riscatto dell’umanità chiamato appunto altermondismo. Nel 2002 Rifondazione fu il solo partito europeo che sottoscrisse il protocollo di Porto Alegre».
E oggi?
«La vera sinistra nelle istituzioni non esiste più. Il Pd non è una sinistra moderata, erede del centrosinistra prodiano, di fatto liberista capace di indicare una strada in politica. Ha cambiato la propria natura. Quanto alla sinistra radicale, è diventata ininfluente».
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A me pare che il Pd di oggi, che va da Speranza agli ex renziani, racchiuda in sé tutte le contraddizioni del vostro Ulivo...
«In un certo senso sì, ma allora noi sapevamo essere protagonisti. Oggi il Pd è una citazione, un cartello incapace di rispondere alle istanze sociali. Manca ogni connessione con i due temi storici fondamentali del momento, l’uguaglianza e la trasformazione della società capitalistica».
Sempre per colpa del governismo, altrimenti detto attaccamento al potere?
«La sinistra tutta ha dismesso l’attitudine al conflitto sociale. Per un periodo questa sua incapacità è stata mascherata dall’antiberlusconismo, che ha drogato lo scenario, spacciando la battaglia pro o contro un uomo da contrasto tra destra e sinistra. Invece era una questione di potere non di programma».
Come se ne esce?
«La sinistra si salva solo se attiva il conflitto sociale fuori dal Parlamento e fa politica non nel cielo delle istituzioni ma nel terreno della società».
È un discorso grillino?
«Grillo ha intuito la deriva mortifera del sistema, ma lui mette in primo piano se stesso e il Movimento anziché le istanze».
D’altronde è un attore, ama il palco...
«E indulge nella propaganda e nella frase roboante. Che senso ha evocare i passamontagna e le brigate? Anche lui cade nell’errore della politica a effetto e della personalizzazione. A differenza del Pd, Grillo capisce la contemporaneità ma anche lui è incapace di risposte».
Mi scusi presidente, ma la Schlein sta provando a rifare la sinistra, parla di giustizia sociale, salario minimo...
«Non voglio essere ingeneroso ma si attribuisce, o le attribuiscono, un compito che non può svolgere».
E perché?
«Lei ha vinto perché ha risposto all’esigenza dell’elettorato di sinistra di bocciare drasticamente la classe dirigente del Pd e perché rappresenta l’effervescenza delle domande che porta avanti il mondo dello spettacolo, della cultura, delle élite illuminate. La Schlein è un leader d’importazione, una testimonial del mondo liberal americano, non a caso ha il passaporto statunitense, ma non è in grado di guidare una mobilitazione sui temi più acuti delle disuguaglianze. È impensabile che le masse popolari la possano interpretare come un’alternativa alla destra».
L’armocromista è simbolo dell’élite che si candida a guidare il popolo...
«Per resuscitare la sinistra devi alzare il livello dello scontro, devi chiedere il reddito universale, spostare il denaro dal profitto ai salari, parlare di pace. È evidente che non lo puoi fare dai seggi del Pd. Sarò eretico: l’alternativa di governo a sinistra può nascere solo fuori dal Parlamento. Serve una soluzione francese».
Ma così la sinistra si candida a un ruolo minoritario di testimonianza, alla Mélenchon...
«Bisogna pur cominciare. Anche la Meloni ha iniziato da un ruolo di testimonianza. Mélenchon è arrivato vicino al ballottaggio, ha assediato il Palazzo per settimane, ha incrementato il consenso, ha costretto Macron a una sorta di golpe bianco, quando il presidente ha impedito al Parlamento di discutere la riforma delle pensioni che aveva approvato. La prigione principale della sinistra è il presentismo, ragionare solo sul tempo breve».
Però nel Pd c’è uno scontro reale sulla strada da intraprendere...
«Non mi pare. È uno scontro politicista, che risponde alle logiche della spettacolarizzazione, alle rivalità personalistiche, e si consuma attraverso frasi a effetto. Uno scontro che si svolge con modalità mutuate dal berlusconismo».
La Schlein deve farlo l’accordo con M5S e rifondare l’Ulivo?
«È irrilevante. Questo dibattito dimostra come la sinistra si concentri nell’infinitamente piccolo mentre la sua gente è investita da un cambiamento epocale del quale mi sembrano consapevoli solo grandi personalità universali e religiose, come il Papa».
E in tutto questo il suo sindacato?
«Per ragioni di cuore non riesco mai a essere troppo duro con il sindacato, in particolare con la Cgil. Il sindacato è sempre in difficoltà nei momenti di cambiamento sociale. Insegue, fatica ad ammodernarsi».
E i lavoratori lo salutano...
«Perché sta subendo un processo di istituzionalizzazione, quasi attendesse dalla politica la propria legittimazione. La Cgil non deve chiedere al governo di essere ascoltata ma avere una piattaforma negoziale da imporre. Deve partire dal conflitto, non dalla trattativa. Oggi le conquiste dei lavoratori sono state erose perché sono i padroni che hanno mosso contro gli operai, si è ribaltata la dialettica. La colpa del sindacato è non aver ostacolato questo processo con la necessaria radicalità».
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