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Elly Schlein, l'illusione socialista di poter pianificare il diritto alla felicità

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Fausto Carioti
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Se non ci preoccupiamo, è perché le probabilità che Elly Schlein governi un giorno questo Paese sono le stesse che ha un novantenne di diventare centravanti della nazionale. Però un filo d’inquietudine c’è lo stesso, vista la velocità con cui il Partito democratico regredisce verso lo statalismo da kolchoz con la spensieratezza delle canzoncine sanremesi citate dalla sua segretaria (aridatece Guccini e Fossati, a proposito). L’ultima è la pretesa di fare del Pd il partito che deve garantire il «diritto alla felicità» per tutti. Lo ha spiegato Marco Furfaro, ventriloquo della segretaria e responsabile delle iniziative politiche del Nazareno, illustrando l’«estate militante» in arrivo. Ha detto a Repubblica che uno dei «punti cardine» della militanza sarà la promozione della giustizia sociale, intesa come «diritto alla felicità».

Non è colpa loro: è che essendo ignorantElly e comunistElly, e dunque abituati a ragionare per concetti collettivi - le classi sociali, il partito, lo Stato- non hanno capito la cosa più importante della felicità: che essa è individuale, non collettiva e tantomeno sociale. E dunque non spetta allo Stato e alla politica costruirla o garantirla. Proprio perché la felicità è un concetto indeterminato e soggettivo e non ne esistono due identiche: confliggono tra loro e la mia vale quanto la tua, finché una non lede la libertà del prossimo.
 


LA VERSIONE AMERICANA
Ognuno di noi avrebbe un po’ di felicità in più se il suo lavoro fosse remunerato il doppio, ma questo, probabilmente, rattristerebbe chi ci paga lo stipendio. Milioni di interisti sarebbero felici se la Juventus retrocedesse in serie B, milioni di juventini sono stati felici vedendo l’Inter sconfitta nella finale di Champions League. Per alcuni la felicità sarebbe andare a letto con la moglie del vicino, ma l’euforia del vicino potrebbe non essere la stessa. Per gli spremuti dal fisco, felicità sarebbe non pagare le tasse: il Pd è con loro?
L’unica cosa che le istituzioni e la politica debbono fare è tenersi alla larga dalla questione, lasciando gli individui liberi di seguire il loro percorso esistenziale. È la visione liberale della felicità, quella contenuta nella Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America, per la quale «tutti gli uomini sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti» e «tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità». Il perseguimento, appunto: ognuno ha il diritto di cercare la propria felicità, non di averla, perché lo Stato non ha alcun dovere di garantirla. Il che sarebbe impossibile, perché i singoli progetti non sono quasi mai compatibili tra loro, e al tempo stesso terrificante, perché il tentativo di raggiungere l’obiettivo comporta l’invasione della sfera di libertà degli individui: decide lo Stato, cioè chi governa, cosa li rende felici, e chi merita di esserlo e chino.

Non è un caso, quindi, che nella Costituzione italiana, dove pure le influenze socialiste e la retorica vuota abbondano, non vi sia traccia del «diritto alla felicità». Snobbato persino dalla rivoluzione francese: Liberté, Égalité e Fraternité quante ne vogliamo, ma nessuna traccia della Félicité. Il diritto alla felicità è scolpito invece nella Costituzione della Repubblica Socialista del Vietnam: «Lo Stato garantisce il benessere, la libertà e la felicità di tutti i cittadini», e nemmeno questo è un caso. 

I TETTI E LE PERSONE
È l’idea di produzione statale della felicità che hanno i comunistElly. Lo spiega lo stesso Furfaro poche righe più avanti, annunciando uno degli slogan della loro estate militante all’insegna della giustizia sociale: «Non ci siano persone senza tetti e tetti senza persone». Hanno messo nel mirino le case sfitte e i loro metodi sono quelli di Emily Clancy, la “piccola Schlein” vicesindaco di Bologna, che dice di aver «sempre visto valore in molte occupazioni» di immobili. Un programma che farebbe senza dubbio felici gli occupanti tutelati dal Pd, ma non i proprietari espropriati. Appena mette piede nel mondo reale, l’utopia si trasforma così in sopruso di Stato: niente di nuovo, tutto nella migliore tradizione del socialismo. Stavolta, almeno, è farsa e non tragedia. 

 

 

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