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Forza Italia, il politologo Vassallo: chi sceglieranno gli elettori del Cav

Fausto Carioti
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Deputato del Pd tra il 2008 e il 2013, il politologo Salvatore Vassallo dirige dal 2020 l’Istituto Cattaneo di Bologna, da dove escono le analisi sul comportamento degli elettori su cui tutti gli addetti ai lavori si regolano. Il risultato delle elezioni di settembre era scritto lì, nelle mappe pubblicate da Vassallo e dai suoi collaboratori, settimane prima del voto. Il suo libro sul percorso della leader di Fdi, Fratelli di Giorgia, è uno dei lavori più equilibrati e completi usciti sulla destra italiana. Ora Vassallo non crede alle previsioni che, dopo la morte di Silvio Berlusconi, dipingono il partito fondato dal Cavaliere vicino al collasso e all’esplosione. «Forza Italia beneficerà del senso di riconoscenza verso Berlusconi, che è ancora vivo in una parte dell’elettorato di centrodestra. I primi sondaggi sembrano confermare che questo effetto durerà almeno fino alle elezioni europee», spiega a Libero.

Sta dicendo che non è solo l’effetto momentaneo della commozione e della vicinanza al leader scomparso? Può diventare un dato stabile?
«È un sentimento che potrebbe tradursi in un’identificazione stabile nel tempo con il simbolo di Forza Italia, almeno in quella generazione di elettori che, dal 1994, non ha mai smesso di riconoscersi in Berlusconi. È più probabile, piuttosto, che i problemi vengano dall’interno del partito, se i conflitti di ambizione finora regolati dal fondatore, o da chi poteva parlare a suo nome, non trovassero un nuovo modo di essere ricomposti».

Matteo Renzi e Carlo Calenda hanno possibilità di pescare voti nel bacino di Forza Italia?
«Azione e Italia Viva finora hanno attratto una quota abbastanza piccola di elettori provenienti dal centrodestra, soprattutto nei grandi centri urbani ed in occasione di competizioni in cui non erano alleati del centrosinistra. In teoria, flussi in quella direzione potrebbero verificarsi alle elezioni per il parlamento europeo, ma è più probabile che nel 2024 continui a prevalere, per le ragioni che dicevo, l’identificazione con il simbolo di Forza Italia».

Nel suo libro Il bipolarismo asimmetrico lei nota che «l’elettorato della coalizione di centrodestra risulta in sostanza politicamente omogeneo, come ha del resto dimostrato la rapidità con cui si è spostato da un leader all’altro». Anche stavolta dobbiamo attenderci un passaggio di elettori da Forza Italia a Fdi o alla Lega?
«Simili flussi, all’interno del campo di centrodestra, sono più probabili, ma anche molto meno prevedibili. Dipendono dalla popolarità dei leader e dal gioco dei ruoli in cui sono inseriti. Ad esempio, una leadership di Forza Italia salda e rassicurante potrebbe addirittura rafforzarsi, mediante un rapporto di leale collaborazione con la premier. Se così fosse, i problemi per il governo potrebbero venire solo da un Matteo Salvini spinto ad estremizzare i toni e accentuare le differenze».

Giorgia Meloni punta all’alleanza col Ppe e ha bisogno che Forza Italia, affiliata ai popolari, superi alle elezioni europee la soglia del 4%. Sei sondaggi dimostrassero che questo risultato è a rischio, ritiene possibile un’accelerazione sul percorso che dovrebbe portare Fdi dal sovranismo ad un conservatorismo moderato? È credibile una federazione tra Fdi e Forza Italia già prima del voto?
«Giorgia Meloni ha la ragionevole ambizione di consolidare il suo ruolo in Europa proponendosi come ponte tra il partito dei Conservatori europei, che presiede, e il Ppe, e non è plausibile che ci rinunci. Anche per questo non mi pare ci sia interesse, né necessità, di accelerare i tempi di un ritorno al Pdl, che pure avrebbe una ragion d’essere, se si considera il percorso da cui è nato Fratelli d’Italia».

Fdi come nucleo di un grande partito conservatore europeo sul modello dei tories inglesi o dei gaullisti francesi: il disegno della premier pare questo. Ce la può fare?
«È possibile, anche se non semplice. Richiederebbe un passo indietro sul piano simbolico e un salto ulteriore, sul piano culturale, ai dirigenti di Fratelli d’Italia: dovrebbero abbandonare la Fiamma e stemperare l’identità nazionalista a vantaggio di un conservatorismo più connotato in senso liberale».
Intanto le elezioni comunali di maggio sono state una delusione per Elly Schlein. Nel Pd si sono alzate le prime voci di dissenso.

Dove ha sbagliato la segretaria?
«Elly Schlein sta semplicemente dando corpo alla linea politica su cui è stata eletta. Il suo modo di interpretare il ruolo era già desumibile dal suo percorso precedente e dal modo in cui si è presentata agli elettori delle primarie. Anche lo scarto tra la sua leadership e le aspettative degli iscritti e del gruppo dirigente era stato registrato nel corso del processo elettorale che l’ha portata alla guida del Pd».

L’accusa principale che i sempre più numerosi “malpancisti” del Pd muovono alla segretaria è quella di fare discorsi e proposte che gli elettori non capiscono.
«A me non pare che le sue posizioni siano indecifrabili. L’indirizzo che esprimono è chiaro. Anche nei casi in cui sono deliberatamente sfumate o ambivalenti, come sugli aiuti militari alla resistenza ucraina contro l’aggressione russa. Quanto al risultato delle amministrative, era stato caricato proprio dai suoi sostenitori dell’attesa di un improbabile “effetto Schlein” ma non può essere interpretato come una sconfessione. Certo, lo spostamento a sinistra del Pd su cui si regge il mandato della segretaria rimane una scommessa aperta».

È possibile che la componente riformista dei democratici, che non si riconosce nella linea Schlein, esca dal partito?
«L’elettorato del Pd ha dimostrato di essere tra i più stabili, nonostante i drastici cambiamenti nella leadership. Fino ad oggi le scissioni non hanno avuto grande fortuna. E il Pd è tra i pochi partiti in cui i leader vengono sostituiti attraverso procedure di voto formalizzate dall’esito incerto, e dunque realmente competitive. Mi pare quindi più probabile, e comunque sarebbe più naturale, che chi non si riconosce nella linea della segretaria sia leale oggi e si candidi a sostituirla alla scadenza del suo mandato, all’inizio del 2027. Solo una alterazione di questa regola fondamentale, al netto di uscite individuali, potrebbe mettere davvero in discussione l’unità di quel partito».

Nel giro di poche settimane il governo presenterà il suo progetto di riforma costituzionale. Stabilità dei governi e rispetto della volontà degli elettori sono i due obiettivi. L’elezione diretta del presidente del consiglio, ipotesi su cui si ragiona a palazzo Chigi, può essere il mezzo per raggiungerli?
«Se fosse prevista l’elezione diretta del primo ministro e il suo mandato fosse indipendente dalla fiducia parlamentare, come avviene negli Stati Uniti tra presidente e congresso, avremmo una stranissima forma di governo presidenziale in cui c’è anche un capo dello Stato eletto dal parlamento con funzioni quasi esclusivamente cerimoniali. Se invece il primo ministro eletto direttamente dal popolo dovesse godere anche della fiducia parlamentare, qualsiasi crisi del rapporto fiduciario delle Camere porterebbe allo scioglimento anticipato. È la ragione per cui l’elezione diretta del premier non è prevista in nessun sistema democratico esistente».

La soluzione?
«Si può pensare ad un sistema elettorale che faciliti un’investitura congiunta, da parte degli elettori e del parlamento, del premier e della coalizione che lo sostiene. Questo sistema dovrebbe essere affiancato da dispositivi istituzionali che rafforzino e stabilizzino il ruolo del premier nel corso della legislatura. Non a caso un’ipotesi simile è stata proposta più volte, da sinistra e da destra. Nel 2006 dal governo Berlusconi e nel 2016 dal governo Renzi. Converrà tuttavia riflettere sul fatto che in entrambi i casi fu bocciata, a ruoli invertiti, da un movimento di opinione mobilitato soprattutto da chi era all’opposizione».

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