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Pierferdinando Casini su Meloni: "Da cosa dipende il suo futuro"

Pietro Senaldi
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«C’è questo parallelismo incredibile, dal valore simbolico fortissimo, dei due lutti nel giro di ventiquattr’ore. Lunedì Berlusconi, martedì Flavia Prodi, la moglie consigliera dell’uomo che riuscì a battere Silvio per due volte, quando il leader di Forza Italia era nel pieno della propria potenza politica. Romano aveva appena avuto parole di grande umanità per il suo rivale e subito dopo è stato colpito dal destino nella sua essenza più intima. La morte è uno strappo violento e irrimediabile, che chiude manifestatamente un’era della storia d’Italia, la cosiddetta Seconda Repubblica, e con essa una parte della vita di tutti noi, perché pensando a Berlusconi in fondo ciascuno pensa un poco a se stesso. Però per la verità questo lungo periodo era già giunto al capolinea il 25 settembre scorso, con la vittoria politica di Giorgia Meloni».

Lei è il solo italiano che ha vissuto in Parlamento sia il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica che quello dalla Seconda a quel che sarà...
«Trent’anni fa morirono i partiti protagonisti del Dopoguerra e ne arrivarono nuovi, su base personale, a sostituirli. Nacque il bipolarismo. Oggi la discontinuità è rappresentata dall’avvento della destra al potere. Mentre in molti ancora discutevano su chi avrebbe messo le mani sull’eredità di Berlusconi, la Meloni se l’era già presa».

Eppure i due sono così diversi...
«In politica le eredità si prendono, non si ricevono. Giorgia è erede di Silvio perché ne ha conquistato i voti, e conseguentemente ha assunto la leadership del centrodestra. Quanto all’eredità politica, si vedrà. I conti li faremo a fine legislatura».

Perché, questo governo dura cinque anni?
«La scomparsa di Berlusconi non terremoterà la maggioranza.
Il collante del potere è un ricostituente straordinario».

Eppure a sinistra, soprattutto su alcuni giornali, già si parla di un governo tecnico prossimo venturo.
«In tanti confondono i loro desideri con la realtà. Non esiste il minimo presupposto perché la stagione della destra venga sostituita da un governo tecnico. E poi i governi tecnici sono come gli antibiotici, vanno presi il meno possibile, solo in caso d’emergenza, altrimenti abbassano le difese immunitarie e diventano loro stessi una patologia».

 

 

 

In treno di ritorno dal funerale della signora Prodi, nella sua Bologna e in attesa di imbarcare una figlia per l’Argentina e di andare a prenderne un’altra in arrivo da Londra, Pierferdinando Casini si dice «convintissimo di stare all’opposizione di questo governo». Pur nel dissenso, stima l’attuale premier, che definisce «una politica vera, seria e ragionevole, alla quale riconosco una grande capacità di resistenza, la dote che in politica ti fa vincere, perché devi saper tenere duro finché non arriva il tuo momento». Certo, poi ci vuole anche la fortuna, anche se da sola non basta, «perché io» ricorda il fondatore del Ccd, Centro Cristiano Democratico, «ruppi con Berlusconi dicendogli che i nostri valori non erano in vendita, una frase molto simile al “non sono una donna ricattabile” di Giorgia. Ma allora era un Silvio al massimo del potere e lo spazio politico era ridotto».

Anche Fini sbagliò i tempi nella sfida a Berlusconi?
«Gianfranco sbagliò a fare quello che non voleva fare, cioè entrare nel Pdl, costretto da Berlusconi. Silvio mise anche me di fronte all’ultimatum: o vieni nel mio partito o ti caccio. Io, che già nutrivo dubbi sulla coalizione e ritenevo indecoroso regalargli il mio partito per salvare il posto in Parlamento, andai da solo e presi un 6% che oggi per molti al centro sarebbe un successo. Gianfranco doveva rompere, come poi hanno fatto la Meloni e La Russa, che per rifondare la destra sono dovuti uscire dal Partito delle Libertà».

Torniamo all’oggi: qual è la partita di Giorgia?
«Devo riconoscerle un’ottima postura internazionale, per come ha orientato i propri rapporti con Stati Uniti, Russia e Cina. Sul Mediterraneo e l’immigrazione, si arrabatta come può, cosa che del resto hanno fatto anche i governi che l’hanno preceduta».

E in Europa, la sinistra tende a dipingerla come la pecora nera, affiancandola a Orbàn?
«Che sia pecora nera o meno dipende da lei. L’Italia è fondamentale per l’Europa almeno quanto essa è fondamentale per noi. Non c’è nessuna intenzione a Bruxelles di emarginare Roma, perché questo innescherebbe un processo di disgregazione della Ue. Siamo troppo importanti, storicamente, politicamente, economicamente, geograficamente».

Potremmo finalmente giocare un ruolo da protagonisti, come ambisce fare il premier?
«Sì, perché gli altri grandi Paesi hanno equilibri fragili e mancano forti leadership. Non vedo i Gonzalez, i Kohl, i Mitterand, e dove c’è un vuoto si apre sempre un’opportunità».

La Meloni punta a ribaltare la maggioranza a Bruxelles, mandando in pensione lo schema Ursula e insediando una commissione politica di centrodestra...
«Penso di sì e Tajani, grande conoscitore di Bruxelles e delle sue dinamiche, la sta aiutando. Ma ho la sensazione che non ci riusciranno. Non vedo un’Europa con i popolari o i socialisti fuori dalla cabina di regia».

Però sia i popolari sia i socialisti sono in forte calo di consensi...
«Le famiglie politiche tradizionali perdono voti perché si affacciano nuove forze, da Podemos ai Conservatori, da Orbàn alla Le Pen ai Cinquestelle. Ma l’Europa sta in piedi su un delicato equilibrio tra Consiglio e Parlamento che per reggersi ha la necessità di coinvolgere un’area vasta. L’Unione e le sue istituzioni sono ancora troppo immature per essere governate a maggioranza. Alla fine, quando si tireranno le somme dopo il voto, ci saranno coalizioni obbligate».

Con la Meloni all’opposizione?
«Non è detto. Può fallire il suo progetto di una coalizione di centrodestra ma allo stesso tempo lei può entrare a far parte di una nuova maggioranza; e forse le converrebbe».

Con Salvini in maggioranza a Roma e all’opposizione della Meloni a Bruxelles?
«Non lo so, confesso che nella mia lunga esperienza il solo politico che non sono mai riuscito a decifrare è Salvini».

Come vede Forza Italia dopo Berlusconi?
«La leadership di Tajani è assicurata. D’altronde, se fosse ancora vivo, Berlusconi indicherebbe lui. Il tema non sono gli assetti esistenti, che nel medio periodo terranno, ma sono i voti, la linfa vitale per qualsiasi schieramento politico».

 



 

Forza Italia vuole continuare a rappresentare l’ala moderata del centrodestra. C’è spazio?
«Potenzialmente, in un contesto bipolare, ci sarebbe spazio per un’area moderata sia a destra sia a sinistra. Prodi ne fu un esempio, anche se cadde due volte perché la sua coalizione era troppo eterogenea. Il problema dei moderati è trovare una leadership. La politica cammina sulle gambe degli uomini. Vedo l’area moderata, non vedo il suo interprete».

Eppure i candidati fioccano...
«L’area moderata non riesce a riconoscere una leadership unica, il che significa che stanno giocando tutti per la Meloni».

Lei ha un grande rapporto con Matteo Renzi...
«Come ho scritto nel mio libro, C’era una volta la politica, nel 2018 mi candidò a Bologna, a casa mia. Avevo contro il centrodestra e Vasco Errani, sinistra pura, ex presidente della Regione Emilia-Romagna. Matteo è il più grande nemico di se stesso, ha grandissime qualità e risorse ma si distrae, fa troppe cose. Se vuole diventare il leader di un’area moderata gli consiglio di concentrarsi di più sulla politica, non disperdersi».

La rivoluzione liberale di Berlusconi fallì perché Silvio non riuscì a farla o perché in fondo non la voleva e non ci ha mai provato?
«Nel suo momento di massima forza, Berlusconi rimase comunque zavorrato dal conflitto d’interessi e dai problemi giudiziari. Così, fai fatica a fare la rivoluzione liberale».

I giudici sono stati decisivi nello sgonfiare la forza innovativa di Berlusconi, togliendo qualcosa anche all’Italia, oltre che a lui?
«Non voglio giudicare i processi, ma certo ci tengo a denunciare un particolare accanimento di una parte militante del mondo giudiziario nei confronti di Berlusconi. E questo ne ha condizionato l’azione politica. Io me ne andai appunto quando mi accorsi che non c’era più sintonia con la politica di Silvio».

Adesso il governo sta mettendo mano alla giustizia, timidamente, ma la sinistra strepita...
«A me invece non scandalizzano affatto i provvedimenti che superano l’abuso d’ufficio, una norma fallita nella pratica, rivedono il traffico d’influenze, reato nebuloso, o pongono sacrosanti limiti alle intercettazioni, tutelando le vite private degli indagati e di chi è entrato in contatto con loro a inchiesta ancora ignota».

Ma questo Pd non sta andando troppo a sinistra?
«Certe cose, come la maternità surrogata, non le condivido. Il tema dei diritti è importante, ma guai a perdere di vista che una società, come richiamava Aldo Moro, si basa su un insieme di diritti e di doveri. L’egemonia dei diritti di una categoria può portare a perdere di vista la tutela dei più deboli.
Comunque la sinistra estrema della Schlein esiste soprattutto nella caricatura che ne fa la destra».

È una questione solo di mancata armocromia?
«In politica estera c’è una sostanziale continuità tra Letta e la Schlein».

Molto a spanne, presidente...
«C’è un mondo giovanile al quale la Schlein fa riferimento che ha sensibilità diverse dalla mia e da quelle di una parte del Pd. Ma un po’ di estremizzazione ci sta, vista come è organizzata oggi la politica. La vedo anche dall’altra parte.
La Schlein in questa fase si sta molto concentrando sulla competizione a sinistra con M5S».

Non rischia di perdere così il voto dei moderati?
«Sarebbe un grande errore perdere contatto con quel mondo. La sfida è questa ma credo che la segretaria lo sappia bene e si stia attrezzando per un lungo cammino».

Siamo nella fase del marketing quindi: come vede il tentativo del Pd di fare un largo fronte con M5S?
«Ogni giorno ha la sua pena, ma prima il Pd deve rianimarsi e poi pensare alle alleanze».

Ma come ci si fa ad alleare con le brigate di cittadinanza con il passamontagna calato sulla testa evocate da Grillo in piazza dopo il corteo M5S a cui ha presenziato la Schlein?
«Di Grillo non ci si può meravigliare. Se lo conosci, lo eviti».

Al Pd paga ancora l’ossessione antifascista?
«Non bisogna rimanere prigionieri del passato, ma è giusto coltivare la memoria perché essa ha un significato. Vedo ragazzi allo stadio che fanno gesti razzisti, penso più per ignoranza che per ideologia. È soprattutto la destra che dovrebbe preoccuparsi di questo. Se penso al Berlusconi di Onna o alla svolta di Fiuggi, vedo una differenza abissale con i discorsi del governo dell’ultimo 25 Aprile o con certe sue timidezze sulla memoria storica. Credo che una delle cose migliori lasciate da Berlusconi all’Italia sia stata aver costituzionalizzato la destra. Facciamone tesoro...».

Quali altri meriti storici?
«Aver spinto la Lega dal separatismo al federalismo ed essersi sempre battuto per l’europeismo, malgrado certi scherzetti subiti dalla Ue». 

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