Guido Crosetto stronca Murgia e Saviano: "I soldati difendono la democrazia"
Come dopo l’alluvione del Polesine e dopo ogni terremoto, i militari dell’Esercito, della Marina, dell’Aeronautica e dei Carabinieri sono in prima fila. Pattugliano le zone devastate, allestiscono aree per gli sfollati, controllano gli argini dei fiumi. «In Emilia-Romagna siano arrivati ad impiegare oltre milletrecento uomini. Stanno lavorando in modo straordinario e continueranno a farlo finché ce ne sarà bisogno», assicura Guido Crosetto, ministro della Difesa.
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Eppure, ministro, c’è una parte d’Italia che vede nei nostri soldati un pericolo per il Paese e la democrazia. Michela Murgia e Roberto Saviano accusano gli incursori del Comsubin di aver fatto una parata fascista alla sfilata del 2 giugno, e non sono i soli ad avere questo atteggiamento.
«Chi vede male le Forze Armate non sa che uno dei loro compiti è difendere le istituzioni e la democrazia. Ciò detto, vorrei tranquillizzare Murgia, Saviano e quanti hanno finto di vedere espressioni di “fascismo” durante la parata del 2 giugno, che è stata un grande successo e ha suscitato l’entusiasmo popolare».
Li rassicuri.
«Il braccio alzato è un saluto militare di marcia, “l’attenti a sinist”, per avvisare il reparto dell’ordine che segue e che, nel caso della parata, fanno tutti i reparti quando sfilano davanti alle autorità, comprese le crocerossine. Non certo un “saluto romano”, insomma. E il grido “Decima” è il motto dei Goi del Comsubin, e nulla c’entra con la X Mas della Rsi, ma con la gloriosa storia degli antenati dei nostri incursori in ben due guerre mondiali, visto che la Decima della Marina militare del Regno operò fino al 1943. E poi chi polemizza con le nostre Forze speciali ignora il lavoro prezioso e coraggioso che fanno lontano dai riflettori, come nel caso dell’esfiltrazione dei nostri connazionali dal Sudan».
In tutto sono circa ottomila i soldati italiani in missione all’estero. Quattordici di loro, appartenenti al corpo degli Alpini e impegnati nella missione di pace della Nato in Kosovo, sono stati feriti nei giorni scorsi. Lei ha detto che «il confine tra il Kosovo e la Serbia è uno di quei luoghi pericolosi in cui una scintilla potrebbe far scoppiare un incendio», e per questo è urgente una soluzione diplomatica. Chi dovrebbe promuoverla?
«Spetterebbe all’Onu, se avesse la forza di farlo. Ma purtroppo l’organizzazione delle Nazioni Unite ha cessato da tempo di avere un ruolo primario nelle questioni geopolitiche. Toccherebbe quindi all’Unione europea, visto anche che Serbia e Kosovo hanno come obiettivo politico quello di entrare nella Ue».
Bruxelles cosa ha fatto?
«Si è fatta sentire attraverso Josep Borrell, alto rappresentante per la politica estera, ma nel frattempo noi italiani ci siamo dati da fare, visto che abbiamo buoni rapporti con ambedue i Paesi coinvolti. Sia io che il ministro degli Esteri Tajani e il presidente Meloni ci siamo mossi per buttare acqua sul fuoco».
Per surrogare una Ue inesistente?
«No, ci siamo mossi in aggiunta alla Ue. Quando si hanno obiettivi comuni, più sforzi si fanno e meglio è. Abbiamo usato i nostri rapporti, anche personali. Nel mio caso, il ministro della Difesa serbo e quello kosovaro si sono mostrati ambedue ragionevoli, orientati a trovare soluzioni e non complicazioni».
La missione Nato Kfor nacque nel 1999 e doveva durare il tempo necessario a stabilizzare l’area. Dopo un quarto di secolo è ancora lì, e per l’Italia rappresenta la missione all’estero più impegnativa. Per quanto ancora i nostri soldati dovranno stare in Kosovo?
«Ci staranno il tempo necessario, che adesso non si può prevedere. Basta poco per alzare la tensione, come abbiamo visto. C’è il problema delle città serbe all’interno del Kosovo: comunità in cui il 97% degli abitanti sono serbi. A loro garanzia erano stati presi degli impegni: alcuni sono stati rispettati, altri an cora no. Solo quando questo percorso sarà finito potremo andarcene».
Una missione all’estero che dura da oltre vent’anni e non si sa quando finirà. È normale?
«I tempi della Storia non sono misurabili con quelli delle nostre vite. Vent’anni sono tanti per me e per lei, ma non bastano per chiudere una ferita che ha centinaia di annidi storia. Purtroppo continuiamo a giudicare gli impegni as sunti a livello internazionale con un’ottica limitata, e così succedono cose come quelle che si sono viste in Afghanistan».
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La Nato ha sbagliato ad andarsene dall’Afghanistan nel 2021?
«Ce ne siamo andati convinti che ciò che stavamo facendo non servisse a nulla. Peccato che avesse consentito a decine di milioni di donne di andare a scuola, a centinaia di giornali e di radio di nascere, alle università di crescere... Stava iniziando un percorso che non andava necessariamente verso il nostro modello di democrazia, perché non possiamo essere così presuntuosi da credere che tutti vogliano fare come noi, ma di sicuro stava consentendo all’Afghanistan di progredire. Tutto azzerato perché abbiamo avuto troppa fretta. E certi errori li paghiamo anche noi».
A che si riferisce?
«Se l’Occidente non avesse mostrato tanta superficialità in Afghanistan, probabilmente in Ucraina le cose sarebbero andate diversamente».
Vede Mosca anche dietro agli scontri in Kosovo? Vladimir Putin sta usando i serbi per appiccare un nuovo incendio nel cuore dell’Europa?
«Non credo mi si possa accusare di essere tenero con il regime russo, a maggior ragione dopo le minacce e gli insulti ricevuti da Mosca. Ma credo che in questo caso, per spiegare ciò che sta succedendo, siano sufficienti i serbi, con la loro storia e il loro rapporto con la comunità kosovara albanese. Non hanno bisogno di aiuti esterni».
Intanto il Pd sta saltando in aria sugli aiuti militari all’Ucraina. Cambia qualcosa per voi?
«No, per noi non cambia nulla. Però dispiace vedere un partito importante in totale crisi di identità su questo argomento. L’Ucraina è un tema cruciale non solo per l’Ucraina e la Russia, ma anche per l’Europa e per il futuro che vogliamo».
Con l’arrivo di Elly Schlein alla segreteria è cambiata la linea del Pd sull’Ucraina?
«Francamente non ho capito quale sia la linea ufficiale. È come se sul tema ci fosse stato un “liberi tutti”, in modo che ognuno possa dire ciò che gli passa in testa».
Quando in un partito è così, significa che il leader non fa il leader.
«Non mi permetto di giudicare nessuno. Probabilmente questo leader ha un’impostazione diversa da quella tradizionale. Non escludo che la Schlein, nella sua diversità, voglia avere questa impostazione “assembleare”. Inutile giudicare ora: “Dai loro frutti li riconoscerete”, dice il Vangelo. Ciò detto, con me la Schlein si è comportata con molta correttezza istituzionale e molta serietà».
Lei ripete spesso che «senza l’Africa non c’è futuro per l’Europa». Dove sbaglia la Ue con l’Africa?
«Sbaglia molto. Intanto fatica a capire che se l’Africa, col suo miliardo e 200 milioni di abitanti, rappresenta un problema oggi per l’Europa, tra vent’anni, quando sarà popolata da due miliardi e mezzo di persone, rappresenterà la morte certa del nostro continente. E poi la Ue non capisce che l’Africa sta finendo sotto l’influenza di Cina e Russia, che vanno lì per prendere terreno coltivabile, acqua, minerali e terre rare. Lo stesso approccio con cui ci sono andati i colonizzatori europei nei secoli scorsi».
E l’Europa come dovrebbe rispondere?
«Facendo crescere in Africa la ricchezza autoctona: ospedali, scuole, università, fabbriche, lavorazione dei prodotti, agricoltura».
La Ue che ha fatto sinora?
«Non esiste un approccio della Ue. Ogni Paese europeo agisce per conto proprio, con l’obiettivo di portare acqua al mulino nazionale. Una politica miope e senza strategia, soprattutto quando si trova ad affrontare quella cinese».
Il “piano Mattei”, insomma, dovrebbe essere europeo, non italiano.
«L’idea di Giorgia Meloni è questa. Essere l’ariete di un piano che faccia crescere economicamente l’Africa. L’Italia da sola non può riuscirci, ma siamo gli unici che cercano di farlo. Stiamo seminando questa idea in tutte le riunioni che facciamo a livello internazionale e poco per volta sta attecchendo. Tutti i Paesi africani lo hanno capito e ci guardano con attenzione e rispetto».
Non crede che per cambiare la Ue sia necessario cambiare prima la maggioranza nel parlamento europeo, creando un’alleanza tra i conservatori, ai quali appartiene anche Fdi, i popolari e i liberali?
«Da anni, non da oggi, sostengo che in Europa sia necessaria un’alleanza tra conservatori e popolari. Lo dimostrano le scelte azzardate e velleitarie fatte negli ultimi anni. La Ue ha affrontato i problemi con l’ideologia e non col pragmatismo. Pensiamo ai tempi imposti per l’auto elettrica, che ci costringerebbe ad una dipendenza totale dalla Cina. Pensiamo alla politica ambientale, declinata in una chiave anti-industriale e dannosa per i lavoratori».
È la linea del socialista olandese Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione europea e commissario per il clima.
«Timmermans porta avanti la proprie convinzioni in modo ideologico, che sembra disconnesso dalla realtà. Si comporta come se il resto del mondo non esistesse e come se non sapesse che la Ue produce solo l’8% delle emissioni di CO2 del pianeta. Incarna un approccio integralista, negativo per l’economia europea e privo di solidarietà. Lo stesso approccio integralista che abbiamo visto quando è stata fatta quasi morire la Grecia pur di non aiutarla. Si è preferito che aumentasse la mortalità infantile piuttosto che concedere ad Atene un aiuto economico che per l’Europa sarebbe stato ridicolo».
Con la pandemia le cose non sono cambiate?
«La pandemia ha fatto riscoprire un po’ dell’idea di comunità, il Recovery Fund è nato così. Anche la guerra in Ucraina ha cambiato un po’ le cose. Ma manca ancora il senso della necessità di un’Europa politica e non più burocratica. L’Europa è un nano politico, ma non può più permettersi di essere tale. Vale per l’Africa, per i rapporti con la Cina, per il confronto con la Russia. Pensiamo alla guerra in Ucraina: cosa avrebbe fatto l’Europa senza gli Stati Uniti?».
Fu così anche nel 1998, con la guerra del Kosovo.
«Ma di questi tempi non è più accettabile. L’Europa deve muoversi».
Anche con la creazione di un esercito europeo?
«L’esercito europeo è impossibile. Bisognerebbe avviare un reclutamento europeo e avere scuole europee per ufficiali. Dovremmo partire oggi per avere forze armate attrezzate tra venticinque, trent’anni. Troppo tempo».
L’alternativa?
«La cooperazione totale tra tutte le forze armate europee, come sta cercando di fare la Nato. Se l’esercito italiano ha le stesse armi, gli stessi metodi, gli stessi sistemi di comando e controllo dell’esercito di un altro Paese europeo, questi possono essere schierati insieme come se fossero parte della stessa nazione. Questo è l’obiettivo realistico che deve porsi subito l’Europa: la totale interoperabilità tra le forze armate dei suoi Paesi».
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