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Piero Sansonetti? Se la sinistra si sente migliore pure nel tracollo

Giovanni Sallusti
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Sono le ultime scorie di gramscianesimo,il trascinamento estremo di una malattia novecentesca, come tale molto istruttivo. Lo abbiamo visto andare in scena a Quarta Repubblica. Nel programma di Nicola Porro si discuteva di un’ovvietà storiografica, l’egemonia culturale della sinistra dal Dopoguerra in poi, e di un dato cronachistico,il tentativo meloniano (ad ora dichiarato, sta al dichiarante poi l’onere della prova) di archiviarla definitivamente. Tema che innervosisce parecchio alcuni ospiti, diciamo i nostalgici del Partito/Principe e dell’intellighenzia organica di corte, tanto che saltano alcuni freni inibitori ed esonda il sottosuolo del pensiero progressista: il razzismo dei Buoni, dei Colti e dei Giusti.

Trascriviamo ancora increduli le parole di Piero Sansonetti, che da quando dirige L’Unità è tornato comunista duro e puro: «L’egemonia culturale c’è stata in Italia da parte della sinistra, negli anni ’50, soprattutto ’60 e poi ’70 e poi anche ’80 e forse anche ’90. Ma questa era una superiorità del ceto intellettuale della sinistra francamente oggettiva». La cultura di sinistra e l’uomo di cultura di sinistra sono, o sono stati a lungo, superiori ontologicamente, sostiene il direttore che ha appena presentato il suo giornale tornato in edicola come «garantista, liberale e cristiano» (figuratevi se era giustizialista, illiberale e totalitario).

 

«NULLA DI PARAGONABILE»
La tesi ovviamente scatena l’entusiasmo del collegato professor Angelo D’Orsi, docente comunistissimo tra i più attivi nelle seconde file del pacifismo antiucraino, diciamo un vice- Orsini. «Non credoci sia stata un’egemonia culturale della sinistra»,  sordisce immaginifico. «Credo ci sia stata, come diceva Sansonetti, una superiorità oggettiva nella produzione culturale. Questo non c’è dubbio. Dall’altra parte non c’era nulla di paragonabile». Nulla di paragonabile. L’immane ricerca storico-filosofica di Renzo De Felice, tra l’altro in primis sul fascismo. Il filone liberale e libertario che parte da Luigi Einaudi (presidente della Repubblica, en passant), passa per Bruno Leoni e Sergio Ricossa e approda ad Antonio Martino. L’epopea di Giovannino Guareschi (lo scrittore italiano più tradotto nel mondo), il male di vivere di Giuseppe Berto, l’afflato dostoevskiano di Eugenio Corti, perfino l’enigma Pasolini, certo, continuamente rivendicato dai compagni ma nel profondo, tecnicamente, un reazionario. E ancora il cattolicesimo anti-statalista che prende le mosse da Don Sturzo, il conservatorismo anarchico di Prezzolini, l’opera del più grande scienziato della politica italiano, Gianfranco Miglio (che tra l’altro sdogana in Italia il pensiero di Carl Schmitt, altro maledetto di destra). 

 

Tutto questo e molto altro (perché sì, le “destre” sono plurali e cangianti, il Moloch non abita qui) trascolora a dettaglio insignificante, nota a piè di pagina, «nulla di paragonabile» alla Grande e Unica Cultura di Sinistra («i più bravi erano comunisti», chiosa con argomentazione per nulla semplicistica Sansonetti). Se questo sbracato e ingiustificato complesso di superiorità, a egemonia vigente, costitutiva un inaccettabile atto di violenza intellettuale, oggi, nell’era dell’armocromunismo e del Soviet-Ztl a guida Elly Schlein, suona solamente ridicolo. L’egemonia sta tramontando insieme al sol dell’avvenire, devono semplicemente rassegnarsi.

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