Antimafia, polemiche e poltrone: ma la Commissione serve davvero?
Tema: antimafia. La prima notizia è che Maria Falcone, sorella di Giovanni, è intervenuta su Repubblica con l’articolo «Basta con l’antimafia» dopo analogo articolo di segno opposto scritto da Alfredo Morvillo, ex procuratore di Trapani e pure lui parente (cognato) di Falcone; la seconda notizia in realtà è una mancata notizia, ossia: in questa legislatura nessun giornale ha sollevato - come avveniva puntualmente - un dibattito sull’effettiva necessità della Commissione parlamentare antimafia, di cui sono appena stati nominati i vertici. Si comincia da Maria Falcone, sorella più anziana del magistrato, che è appunto è intervenuta su Repubblica con l’articolo «Basta con l’antimafia di carriere e passerelle» destando qualche soddisfazione nel centrodestra (ma anche più silenziosamente nel centrosinistra) più qualche perplessità circa la sua coerenza.
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Da una parte, infatti, è vero che digitando la parola «antimafia» su un motore di ricerca il nome Maria Falcone è tra i primi nomi che spunta fuori, anche se indubbiamente, sin dal 1992, la medesima non ha fatto solo la sorella, ma ha lavorato a una Fondazione poi celebrata, sovvenzionata e divenuta un vessillo di testimonianza che ha raccolto riconoscimenti in Italia e nel mondo, dal Quirinale all’Onu; dall’altra parte, è anche vero che la stessa Fondazione non si è mai propriamente sottratta alle strumentalizzazioni dell’antimafia peggiore, quella che lei, Maria, ora sta all’apparenza criticando, e che nei decenni ha trasformato Falcone & Borsellino in un santino da parabrezza con copyright su celebrazioni e commemorazioni. Ma dall’articolo non si capisce bene di quale antimafia parli, anche perché non compaiono nomi né riferimenti: «È il tempo di andare avanti», scrive, e «di perseverare nella ricerca della verità e al contempo smettere di usare l’antimafia per fare carriera, per fare passerella».
Però, dal suo elogio alla cattura di Matteo Messina Denaro, onorando testualmente «la magistratura più coraggiosa», s’intende che la Falcone prenda apertamente le distanze dagli inguaribili dietrologi dell’eterna «trattativa» e in particolare dall’ex procuratore di Trapani Alfredo Morvillo, peraltro suo parente perché cognato di Falcone: il magistrato, caro al fronte del Fatto Quotidiano, era infatti rimasto inorridito dopo che Maria Falcone aveva firmato un accordo col sindaco palermitano di centrodestra per realizzare l’ennesimo museo dell’antimafia. Infatti, sullo stesso dorso palermitano di Repubblica, si era chiesto: «In questa città aver fatto accordi con la mafia viene ritenuto da tutti un fatto disdicevole?».
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CHI È PIÙ ADAMANTINO?
Il riferimento era all’appoggio fornito all’attuale sindaco da parte di Marcello Dell’Utri e Salvatore Cuffaro, politici condannati per fatti di mafia. «Troppo spesso i cittadini ricevono dall’alto segnali che invitano a convivere con ambienti notoriamente in odore di mafia», aveva aggiunto Morvillo con apparente riferimento a Maria Falcone, che in effetti, durate la campagna elettorale dell’anno scorso, si era scagliata contro «gli impresentabili», affermando che «la politica non si può permettere sponsor che non siano adamantini, Dell’Utri e Cuffaro non lo sono». Ma poi, ora, ha firmato un accordo col sindaco per fare un museo.
Neanche l’articolo di Alfredo Morvillo conteneva nomi e riferimenti chiari, secondo uno stile siciliano che non vogliamo definire: ma si accennava, ancora, alla «rituale presenza di personaggi che non tralasciano occasione per propagandare la convivenza politico-sociale con ambienti notoriamente in odore di mafia» e questo era un primo indizio. Poi, ancora: «Se si vuole concretamente dare un seguito alle parole di Paolo Borsellino, dobbiamo adoperarci per tenere lontano dalla nostra vita tutto ciò che ha anche il più lieve odore di mafia. Anche quando queste scelte comportano la rinuncia a godere di quegli aiuti, di quegli appoggi che ben noti ambienti politico-mafiosi sono in grado di assicurare». Secondo indizio, pesantissimo: sì, parlava proprio di Maria Falcone. La quale ha risposto così: «$ il tempo di non abbassare la guardia e al contempo di costruire ponti tra le diverse componenti sociali, pretendere impegni da chi vuole unirsi allo sforzo del cambiamento, senza criticare a priori, magari rianimati da una certa nostrana acida propensione alla presunzione». Potrebbe essere solo una bega tra parenti, o forse sono i segni del tempo che passa in una regione che ha fatto della mafia corleonese una materia da archeologia giudiziaria.
DA QUEL LONTANO 1962...
E, a proposito di archeologia giudiziaria e di antimafia, eccoci alle polemiche sulla nomina della meloniana Chiara Colosimo alla presidenza dell’immancabile Commissione antimafia: la quale non va certo abolita perché la presiede Chiara Colosimo, ma che la presieda lei, ora, senza averne particolare titolo, come pure non l’aveva chi l’ha preceduta Nicola Morra dei Cinque Stelle e Rosi Bindi del Pd – è qualcosa che spiega bene la perfetta inutilità della Commissione. In tempi di «anticasta» forse avrebbero potuto scrivere, molto in teoria, di antiquata fabbrica di poltrone, di incarichi da spartire, di benefit, di gettoni di presenza, di trasferte, di auto blu, di autisti e segretarie, di quintalate di carta per produrre «studi» e faldoni, audizioni e compitini, soprattutto pile di atti ufficiali e ripetitivi che nessuno legge mai, spesso doppiandosi con altre commissioni, il tutto con poteri d’indagine ma non di accertamento o di sanzione. L’espressione «antimafia» tuttavia avrebbe scoraggiato anche gli anticasta più famelici.
Si parla di una Commissione che dovrebbe occuparsi di mafia, camorra, ’ndrangheta, mafie straniere e narcomafie, riciclaggio all’estero, nuove leggi da introdurre e, il tutto, senza sovrapporsi alle varie Dia e Dda e Dna. Sorta nel 1962, la «Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali anche straniere» doveva essenzialmente studiare e capire il fenomeno: verrebbe da rispondere che forse è stato studiato e capito a sufficienza, e che, anzi, la vecchia mafia ha pure fatto in tempo a sparire per come era stata studiata e compresa. Forse servirebbe altro, tipo una commissione che contribuisse alla costruzione di uno spazio giuridico condiviso dall’Unione europea, opera complicata perché molte leggi antimafia esistono soltanto da noi: dal 416bis o al concorso esterno. Anche il compito di indagare sul rapporto tra mafia e politica ormai è stato svolto più o meno impropriamente dalle procure.
Nei fatti, i pur provvisori libri di Storia contemporanea riportano che dopo i vertici toccati dalla Commissione di Gerardo Chiaromonte, e la brusca degenerazione della Commissione di Luciano Violante – che ascoltava e riascoltava le stesse fonti dei magistrati, ossia i collaboratori di giustizia - le presidenze successive sono progressivamente giunte al vuoto, sempre più allontanandosi dalla comprensione dei nuovi trend criminali e dall’individuazione dei nuovi spazi, pubblici e privati, in cui le mafie sono diventate globali e multinazionali. Tuttavia il ferrovecchio della Commissione rimane lì: fa litigare per le poltrone, ma non per il loro significato.