Il ministro Calderone: "Entro luglio 1,5 milioni di assunti"
«Non è a me che deve chiedere se ho capito cosa vogliono i sindacati quando scendono in piazza, ma agli italiani».
Allora le chiedo cosa vuole lei dai sindacati che scendono in piazza con scadenza costante contro il governo?
«Un vero dialogo sul merito delle questioni con un approccio fattivo alla soluzione dei problemi».
Ci sono tanti contratti collettivi scaduti...
«Il rinnovo della contrattazione non spetta al governo ma a imprese e sindacati. Certo, la nostra porta è aperta e siamo disponibili a facilitare la ripresa delle trattative».
E che consiglio darebbe ai sindacati, di alzare lo stipendio dei lavoratori anziché fare politica?
«Non riuscirà a farmi dire cose di questo genere».
In Italia c’è un problema di stipendi bassi, a tutti i livelli, tant’è che molti cittadini scelgono di non lavorare o di andare all’estero: non lo ritiene un problema?
«Certo che lo è. In Italia la copertura contrattuale è quasi al 90% frutto della contrattazione collettiva. Alcuni contratti, scaduti da molto tempo, necessiterebbero di essere prontamente rinnovati».
Come rimediare?
«Il rinnovo dei contratti collettivi, con l’adeguamento dei livelli contributivi, è certamente una priorità. Non dimentichiamo, tuttavia, che oggi i lavoratori attribuiscono importanza anche ad altri temi che attengono alla qualità della vita e al welfare. Io credo che la chiave per migliorare le condizioni dei lavoratori stia in una buona contrattazione, nel welfare aziendale e nella contrattazione di secondo livello, che può rappresentare un punto strategico nell’adeguamento dei salari al costo della vita dei diversi territori».
Lei sa che se parla di gabbie salariali le saltano in testa?
«Infatti non ne parlo e non è a questo che mi riferisco. Ma attraverso la premialità un’azienda potrà integrare gli stipendi rispetto al contratto nazionale, tenendo magari conto del costo della vita».
Da buona sarda, e quale tecnica prestata alla politica, la ministra Marina Elvira Calderone non ama i proclami. Ha un approccio pragmatico e sa che una parola di troppo può vanificare l’opera di mesi. Specie nel suo campo, il Lavoro, terreno scivoloso della politica italiana, dove gli interessi dei lavoratori si mischiano, si sovrappongono e spesso si annullano nel confronto di quelli che dovrebbero rappresentarli. Con un segretario della Cgil che ancora non ha deciso se fare il vice di Elly Schlein, e quindi spaccare la cosiddetta Triplice, o provare a guidarla, e con i venti che tirano, ogni frase potrebbe volutamente essere male interpretata. «Ma io sono ottimista» chiosa il ministro, «abbiamo il record di occupati e la prospettiva, come segnalano tutti gli indicatori economici per i prossimi anni è buona, anche per via del ricambio generazionale in corso. L’ultimo rapporto Unioncamere segnala infatti che le aziende hanno la necessità di assumere un milione e mezzo di lavoratori entro luglio».
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Il guaio è che non li trovano perché non ci sono le competenze: la forbice tra domanda e offerta di lavoro è salita dal 26% al 46%: colpa delle scuole professionali che non riescono a fornire risposte al mercato?
«I motivi di questa impennata sono vari, si tratta di una vera e propria tempesta perfetta. Mettiamo insieme la crescita della domanda globale, la sostituzione dei lavoratori che stanno andando in pensione, la diminuzione del numero dei giovani e il numero inadeguato di competenze, soprattutto tecniche, rispetto alla domanda delle imprese e troviamo una combinazione di fattori molto chiara. In questo quadro il crollo degli iscritti agli istituti professionali, a fronte della crescita delle iscrizioni ai licei, di questi dieci anni, mostra delle scelte delle famiglie in controtendenza rispetto al mercato del lavoro».
Ministro, gliela metto giù piatta: il problema delle aziende che non trovano lavoratori è dovuto al reddito di cittadinanza?
«La risposta è nei numeri: il reddito di cittadinanza non ha avuto nessun effetto sul mercato del lavoro. Sono stati 25 miliardi spesi per sostenere le condizioni di reddito delle famiglie più povere, ma i percorsi di attivazione non hanno funzionato. La nostra riforma cambia del tutto il segno culturale di questo approccio: il sostegno al reddito va dato alle famiglie in condizioni di fragilità che non possono essere in condizione di lavorare, ma per gli altri lo strumento non è il sussidio, ma il sostegno all’accompagnamento al lavoro».
Gli occupabili perderanno il reddito anche se le Regioni non avranno organizzato corsi di formazione?
«Il reddito non esisterà più. Chi è in età di lavoro può accedere al supporto per il lavoro e la formazione, un beneficio economico subordinato al fatto che il percorso formativo o l’attività di pubblica utilità siano state attivate, in quanto si tratta non di un sussidio ma di una indennità di partecipazione».
Quali meccanismi di controllo prevedete per scongiurare eventuali truffe?
«Intanto, il nuovo impianto della riforma sottopone l’erogazione del sussidio o dell’indennità all’attivazione del singolo. Che non è una differenza di poco rispetto al passato. Pertanto, ci sarà un sistema di controlli più attento sia nella fase della presentazione della domanda sia durante l’erogazione delle misure, attraverso l’aumento del numero dei controlli da parte dell’Ispettorato nazionale del lavoro».
Ma se mancano le professionalità non sarà tutta colpa del reddito di cittadinanza, che per lo più diamo a persone senza grandi professionalità. Sbagliano le famiglie, gli istituti non danno garanzia di offrire una preparazione adeguata o fino a poco fa il messaggio della politica era che era bene avere una società di tutti laureati?
«Ha ragione, è anche una questione di retaggio culturale e di visione della scuola. Dobbiamo riuscire a far comprendere che il percorso dell’istruzione tecnica superiore non è di serie B. In Italia abbiamo tante eccellenze e il Made in Italy è riconosciuto come un valore intrinseco: dovremo far conoscere queste realtà anche per incidere su una cultura che vede il percorso liceale, e poi la laurea, come più prestigioso di altri. Per questo sbaglia chi ironizza sul liceo del Made in Italy, ci dev’essere osmosi tra istruzione e lavoro».
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Si dice che in Italia gli stipendi sono bassi perché c’è scarsa produttività: dipende dal fatto che le imprese investono poco e che il costo del lavoro è troppo alto?
«Non è che in Italia la produttività in questi anni non sia cresciuta, ma è evidente che dobbiamo intervenire ancora sul costo del lavoro. Abbiamo cominciato a farlo. Lavoriamo sull’obiettivo di legislatura di ridurre il cuneo in maniera strutturale del 5%. Dobbiamo insistere sulle competenze, l’Europa ci mette a disposizione oltre quattro miliardi di euro con il Piano Gol (Pnrr). In questo senso, va amplificato il legame tra lavoro e formazione. Con le Regioni, quindi, ma anche con le aziende per individuare le professioni del futuro e iniziare a formare con le giuste competenze i lavoratori di domani».
Un tempo le competenze si formavano in azienda: perché non è più così?
«Le competenze continuano a formarsi in azienda. Il fondo nuove competenze ha rappresentato in questi anni un buon investimento pubblico per formare i lavoratori durante la pandemia, ma ora è mia intenzione rivederne alcune funzioni, per sostenere per esempio la formazione in ingresso dei neoassunti».
Come si può fare per convincere le aziende a investire sui giovani e i giovani a investire nella loro formazione aziendale?
«Il 30% della domanda di lavoro italiano, che è in costante crescita e che fa fatica a trovare competenze, è rivolta in particolare ai giovani. Una impresa che non investe sui giovani ha vita breve. Per questo il governo ha approvato con il decreto lavoro delle misure specifiche: per l’assunzione a tempo indeterminato di un giovane sotto ai 30 anni, iscritto al Programma Operativo Nazionale Iniziativa Occupazione Giovani, che non studia e non lavora, è previsto un incentivo valido per un anno intero, pari al 60% della retribuzione lorda mensile, cumulabile con altri bonus già in essere, come quello per l’assunzione di under 36 (in questo caso, l’incentivo scende al 20%)».
Perché avete cambiato le causali dei contratti a termine e perché il rafforzamento dei voucher ha provocato molte polemiche: non è meglio il voucher rispetto al lavoro nero?
«Le causali non sono cambiate e nemmeno la durata dei contratti a termine, ma abbiamo chiarito che le parti possano decidere per la proroga per situazioni concordate, così da venire incontro alle dinamiche del mercato che in questi mesi stanno stimolando le imprese ma non sono ancora stabili. Quelli che chiamiamo erroneamente voucher al posto di “prestazione occasionale” sono rafforzati ma solo in alcuni settori specifici e la loro natura è sussidiaria: non sono sostitutivi di un rapporto di lavoro vero e proprio, servono per rendere meno conveniente il lavoro nero o informale».
Una parte del Parlamento ritiene che le risposte alla mancanza di lavoratori possano essere date dall’immigrazione: come è possibile se essa non è qualificata?
«La domanda delle imprese e delle organizzazioni di impresa è quella di intervenire sulla gestione dei flussi per aumentare e al tempo stesso regolare l’afflusso degli immigrati in possesso di competenze e qualifiche adatte. In ogni caso la soluzione è quella della programmazione dei flussi e della possibilità di sostenere l’ingresso di immigrati in condizione di lavorare, anche con la formazione fatta nei paesi di origine».
Il cosiddetto piano Mattei per l’Africa lanciato dal premier Meloni?
«Certamente, dobbiamo formare le professionalità sul posto. È un buon modo per gestire flussi programmati d’ingresso in Italia di manodopera qualificata, dando garanzie di vita e lavoro regolare a quelle popolazioni».
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