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Istruzione, una scuola senza voti non è scuola
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Una scuola senza voti sarebbe ancora scuola? È la domanda che sorge spontanea dopo aver letto l’articolo compiaciuto che Repubblica ha dedicato all’esperimento in corso in vari istituti di una scuola in cui è abolita la valutazione. La quale, ci si fa sapere, avrebbe il favore dei pedagogisti (ma quali?) sebbene non di tutti gli insegnanti. Certo, lo scopo della scuola è quello di far sì che gli studenti si istruiscano, acquistino cioè quelle cognizioni e quel metodo di apprendimento che secoli di civiltà ci hanno consegnato. Non secondario è però anche un altro scopo, che la società odierna tende a dimenticare: la scuola deve educare, formare dei caratteri. Senza carattere, l’uomo si trasforma in massa e in servo, e poco importa se oggi la schiavitù sia quella del conformismo e dell’omologazione culturale e non più (o non solo) quella delle idee imposte da un autocrate per perpetrare il suo potere. Si educa, prima di tutto, alla vita.
Quel minimo di stress e di sofferenza sotteso all’educazione è perciò nulla più che una parafrasi della nostra esistenza, ove non esistono pasti gratis e anche la cultura è conquistata col sacrificio. Repubblica sottolinea che l’idea di abolire i voti viene dagli stessi ragazzi e la presenta come un segno della loro maturità. Qui si potrebbe celiare dicendo che, da quando il mondo è mondo, l’ideale di ogni adolescente studente, anche dei più bravi, è quello di marinare la scuola e incontrare un Gatto e una Volpe che lo portino nel Paese dei balocchi. Fatto sta, essendo più seri, che chi la proposta vuole colpire è proprio l’insegnante come necessario mediatore culturale e quasi “terzo genitore”, cioè traghettatore del giovane verso la matura età.
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Ora, il voto è un elemento necessario che l’insegnante non può non avere nelle sue mani per distribuire i meriti e permettere ai più restii di rimediare alle proprie negligenze applicandosi di più o meglio. Certo, i professori dovrebbero essere consapevoli del ruolo, mentre lo Stato dovrebbe tenerli in più alta considerazione, anche economica, e non spuntargli le armi come fanno queste proposte. Al fondo delle quali non è difficile intravedere quell’ideologia progressista sessantottina fondata su parole come uguaglianza, critica al principio di autorità, assemblearismo. Ove questa concezione abbia portato non è difficile constatarlo: quella che era una scuola che aiutava la mobilità sociale, e in cui anche chi era figlio di una persona povera poteva diventare qualcuno, si è trasformata in una scuola in cui il livellamento c’è stato ma al ribasso. Quanto ai ricchi, possono permettersi le migliori scuole private. In controluce, non è nemmeno difficile vedere un attacco al ministro dell’Istruzione Valditara che, al nome del suo ministero, ha voluto aggiungere la parola che più fa scandalo oggi a sinistra: Merito.
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