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Russia, Minniti: "Putin? Dopo l'Ucraina, l'Africa: cosa rischia l'Europa"

Mirko Molteni
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La guerra civile in Sudan è l’ultimo anello di una catena di sconvolgimenti degli assetti africani dovuti, anche, al braccio di ferro fra l’Occidente e l’asse russo -cinese. Su tali scenari abbiamo intervistato Marco Minniti, già ministro degli Interni dal 2016 al 2018, e dal 2021 presidente della Fondazione Med-Or per i rapporti con l’Oriente.

Onorevole Minniti, cosa c’è dietro la guerra in Sudan?
«Fin dall’inizio del conflitto scoppiato a Khartum fra due generali rivali, abbiamo saputo che i mercenari russi della compagnia Wagner hanno rifornito le milizie RSF (Rapid Support Forces), che lottano contro l’esercito regolare, per via aerea, con voli in partenza dalla Cirenaica. Ciò non vuol dire che la Russia sia all’origine della guerra. Il conflitto ha motivi endogeni, tutti sudanesi. Il generale Hemetti Dagalo, comandante delle forze speciali RSF s’è ribellato al piano con cui il comandante dell’esercito regolare, generale Al Bhuran, intendeva assorbire tali milizie. Se le RSF confluissero nell’esercito sudanese, Hemetti perderebbe peso politico».

Cosa cercano i russi fra quelle sabbie?
«Perla Russia l’Africa è sempre più importante e lo dimostra che, nonostante la Wagner sia la punta di diamante delle forze militari di Mosca, il presidente Vladimir Putin abbia preferito mobilitare i coscritti per sostenere lo sforzo bellico contro l’Ucraina, anziché ritirare i contingenti Wagner schierati in Africa per inviarli sul fronte europeo. In Sudan la Wagner controlla l’estrazione dell’oro da ricche miniere in complicità con le milizie RSF. La Russia guarda al Sudan per l’oro e le terre rare, quei metalli da cui dipende la più avanzata tecnologia elettronica. Ma mira anche a una base navale a Porto Sudan, sul Mar Rosso. Poco prima del conflitto, è stato a Khartum il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, a negoziare la concessione della base, posta lungo l’asse strategico del canale di Suez e dei collegamenti fra Mediterraneo e Oceano Indiano. L’Africa s’inquadra nella strategia della Russia, che ha iniziato a estendere la sua sfera nell’Artico, poi nel Mediterraneo, con la base di Tartus in Siria e la Wagner in Libia. Infine ecco la fascia del Sahel e il Sudan».

Quali i rischi a livello regionale?
«L’Europa non si rende conto di quanto la guerra in Sudan possa sconvolgere la regione con un effetto domino.
C’è rischio di un coinvolgimento della Libia, ma anche del Ciad, sotto pressione per l’arrivo di 100.000 profughi che si aggiungono ad altre centinaia di migliaia lì ospitati. Per i russi sarebbe un successo la vittoria di Hemetti, ma per ora evita di schierarsi apertamente e sta a vedere chi uscirà vincitore. All’Egitto, il caos in Sudan fa mancare un alleato prezioso, ponte per il Corno d’Africa, dove la grande diga GERD costruita dall’Etiopia sul Nilo Azzurro è criticata dal Cairo e da Khartum. La situazione pare in bilico, Hemetti è più forte nel Darfur, Al Bhuran nella capitale».

Ma il susseguirsi di momenti di tregua non è un segnale positivo?
«Negli ultimi giorni non è stata rispettata una nuova tregua di 72 ore. Ma la cosa importante è che le due parti abbiano accettato di parlarsi a Giuba. Alla mediazione hanno concorso l’Egitto, che sostiene Al Bhuran, gli Emirati Arabi Uniti, vicini ad Hemetti, e l’Arabia Saudita, che sta nel mezzo. È possibile una pacificazione. Segno positivo è la liberazione di 150 militari egiziani presenti in Sudan, che erano stati catturati dai militi di Hemetti. Sono almeno sintomi di raffreddamento della crisi. Tuttavia il rischio d’una catastrofica guerra civile non è affatto scongiurato».

In che misura l’espansione dei russi nel Sahel è legata all’arretramento della Francia?
«Cinque settimane fa il presidente francese Macron ha visitato vari paesi africani e ha dichiarato che la ’Franceafriqu. È è finita. Una rivoluzione, se si considera il rapporto storico, anche coloniale, della Francia con l’Africa. Macron ha annunciato che la Francia interverrà solo se quei paesi lo chiederanno. I francesi si sono ritirati dal Mali, dopo che nella capitale Bamako, prima della guerra in Ucraina, e anche dopo, la folla scendeva in piazza a protestare contro la Francia sventolando bandiere russe e mostrando gigantografie di Putin. E in Mali si è insediata la Wagner. Nei vicini Burkina Faso e Repubblica Centrafricana, pure la Wagner è un punto di riferimento dei governi locali. Stupisce il Niger, il paese più filooccidentale del Sahel, ricco di uranio, dove in un grande sciopero generale i sindacati hanno messo al primo punto delle richieste il ritiro delle truppe francesi, che vi operano insieme a militari italiani. A ciò va aggiunta l’incombente e sempre più minacciosa presenza delle varanti africane di Al Qaeda e Islamic State».

Che dire sulla “bomba” Tunisia, sull’orlo del default e con migliaia di migranti pronti a salpare verso l’Italia?
«La Tunisia può non farcela, dobbiamo dire la verità. Sarebbe un collasso simile a quello del 2011, con le primavere arabe. Ma allora c’era un “sogno” di cambiamento democratico che oggi manca. Una bancarotta della Tunisia avrebbe un ingente significato, perché era l’unico paese in cui le primavere arabe hanno avuto effetti positivi, di vera democratizzazione. L’Unione Europea non comprende la crisi tunisina e si limita a vincolare il suo sostegno a Tunisi con l’accettazione da parte del governo del prestito del Fondo Monetario Internazionale. Il paese ha risentito della pandemia Covid-19, che ha compromesso la sua vocazione turistica. Poi è arrivata la guerra russo-ucraina, che ha causato inflazione alimentare a causa del rialzo dei prezzi del grano».

Non è un problema comune ad altre nazioni del Maghreb?
«Il caso dell’Egitto è simile, anch’esso come la Tunisia dipende per l’80-90% dal grano russo o ucraino. Il governo del Cairo ha accettato le condizioni dell’FMI per avere sostegno finanziario, ma in cambio ha promesso di smantellare il notevole potere economico delle forze armate egiziane. Tale riforma procede a rilento e l’FMI non ha ancora versato la prima tranche del prestito. Se l’Egitto sta ancora in piedi lo deve agli aiuti erogatigli da Emirati, Arabia Saudita e Qatar, pari a 22 miliardi di dollari in investimenti e 5 miliardi di liquidità nelle banche».

E l’Europa cosa fa, mentre al di là del mare cresce la disperazione?
«L’Unione Europea compie un errore di prospettiva nei confronti della Tunisia. È una grande potenza politica e democratica, non una banca. Non può subordinare le proprie decisioni a quelle dell’FMI. Sarebbe come dire che il potere finanziario prevale su quello politico. L’Europa è anzitutto dei suoi popoli. L’Ue non può rinunciare al suo ruolo. Deve capire che, se la guerra in Ucraina rappresenta un fronte militare e il sostegno a Kiev è sacrosanto, altrettanto importante è il fronte del Nordafrica, che è un secondo fronte asimmetrico. Putin ha capito che fare della Russia il paladino del Sud del mondo lo avvantaggia. Lo ha dimostrato quando ha detto che, con la guerra in Ucraina, la Russia “ha reagito all’attacco dell’Occidente”. Se l’Europa non lo capisce, si rischia che alla fine l’Occidente, e non la Russia, venga isolato dal resto del mondo».

Mosca e Pechino possono riuscire a isolare l’Occidente?
«La Russia è subalterna rispetto alla Cina, che ha realizzato un capolavoro diplomatico mediando lo storico accordo fra Arabia Saudita e Iran.
Inoltre l’Algeria, paese che sta diventando un nostro fornitore di gas, ha fatto richiesta per entrare nel gruppo BRICS, le nazioni emergenti capitanate da Russia e Cina, e dal punto di vista militare resta legata a Mosca. I rapporti che Cina e Russia hanno coltivato con l’Arabia Saudita stanno per portare a un’altra svolta, il ritorno della Siria nella Lega Araba. E pensare che pochi anni fa, quando il suo paese ne era stato espulso nel 2012, il presidente siriano Assad era considerato politicamente finito».

Cosa possono fare Italia ed Europa per mutare questo corso?
«L’Europa è schiacciata da una tenaglia umanitaria. Da Est sono arrivati 4,5 milioni di profughi ucraini, dei quali 150.000 in Italia. E i segnali dalla sponda Sud del Mediterraneo sono inquietanti. Affinché le migrazioni siano gestite con regole precise, i membri UE affacciati sul Mediterraneo devono convincere i paesi del Nordest, come la Polonia o gli stati baltici, che non esiste solo la minaccia russa. Se la destabilizzazione in Africa prosegue, l’onda d’urto migratoria può assumere proporzioni tali che l’Europa può non farcela. La mia idea è che l’Italia possa avere una funzione storica proponendo ai due maggior partner mediterranei, cioè Francia e Spagna, di sviluppare una posizione comune e coordinata sul problema del Nordafrica, proponendo al Consiglio Europeo progetti di investimenti nelle economie africane, legati allo sviluppo della democrazia e dei diritti. Il fatto che dal 1° luglio la presidenza di turno dell’Ue tocchi alla Spagna potrebbe facilitare le cose. Anche se il Consiglio Europeo non dovesse dare retta all’asse Italia-Francia-Spagna, l’importanza di queste nazioni basterebbe a dare loro una massa critica sufficiente ad attrarre altri Paesi».

E sulla questione delle migrazioni?
«L’Europa deve proporre all’Africa, ai paesi di partenza e di transito, un patto per le migrazioni legali e il contrasto assoluto ai trafficanti di esseri umani. Si tratta di trasformare gli attuali squilibri demografici, un’Africa che cresce impetuosamente e un’Europa invece in recessione demografica, da potenziali rischi in opportunità. Con un occhio all’India, prima potenza demografica del pianeta, che solo nel 2022 ha raccolto 100 miliardi di dollari di rimesse dei propri migranti legali sparsi per il mondo. Un grande storico anglosassone, Christopher Clark, nel descrivere il precipitare dell’Europa nella Prima Guerra Mondiale, ha titolato “The Sleepwalkers”, i sonnambuli. In questo tornante drammatico della storia, di tutto ha bisogno il mondo, tranne che di nuovi sonnambuli europei». 

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