Sergio Mattarella si schiera: "Il vero indice di dignità"
È il lavoro che fa la differenza, non l’assistenzialismo. Lavoro come «diritto», ma anche come «dovere» di ogni cittadino (perché c’è pure il dovere di lavorare, nella Costituzione). Il lavoro come «mezzo di mobilità sociale» e come «indice di dignità», perché «strettamente collegato al progetto di vita di ogni persona». Come «primo, elementare, modo costruttivo di redistribuzione», e come «locomotiva di un Paese che vuole avanzare». La crescita dell’individuo e della comunità, l’etica, l’equità sociale e l’economia: tutto passa da lì.
Sergio Mattarella anticipa così il messaggio del 1 maggio al sabato 29 aprile, ultimo giorno utile per farlo in una fabbrica, davanti – appunto – a chi produce e lavora. Sceglie un’eccellenza del made in Italy, il distretto emiliano della meccatronica a Cavriago, quattrocento aziende specializzate nell’innovazione (la meccatronica è l’incrocio tra meccanica, informatica ed elettronica), con 27mila dipendenti e oltre 11 miliardi di euro di fatturato complessivo.
Già quel posto, nel quale la disoccupazione di fatto non esiste, è un segnale d’ottimismo,che il capo dello Stato rafforza ricordando il dato «incoraggiante» della «crescita del Pil oltre le previsioni». Accanto a lui, il ministro del Lavoro, Marina Calderone,contestata da Pd e Cinque Stelle a causa del decreto che il consiglio dei ministri varerà domani e segnerà, finalmente, la fine del reddito di cittadinanza.
L’elogio del lavoro è anche l’elogio dell’impresa privata. Il successo della meccatronica emiliana nel mercato globalizzato, nota il presidente della repubblica, è figlio di «una grande capacità di innovazione resa possibile dalla passione degli imprenditori, dal contributo dei lavoratori alla vita e agli obiettivi dell’impresa, dal rapporto con il mondo della ricerca». E se siamo usciti «a testa alta» dalla pandemia, ricorda, «lo dobbiamo anche alla forza della nostra industria manifatturiera».
Proprio perché il lavoro e la sua etica devono essere di tutti, Mattarella cita Giuseppe Di Vittorio, il fondatore della Cgil, e il piano per il lavoro che propose nel 1949 (tutt’altro che un progetto comunista, visto che lo stesso sindacalista, pragmatico, lo poggiava sulle «possibilità potenziali di sviluppo della produzione, nella misura in cui sono utilizzabili in un regime capitalista»).
Ma cita pure il democristiano Ezio Vanoni e il suo piano per creare quattro milioni di posti di lavoro. E ricorda il suo predecessore Luigi Einaudi, «rigoroso maestro liberale di economia», il quale affermava che «lo Stato moderno ha come primo compito di non creare disoccupazione e miseria». L’ottimismo non impedisce a Mattarella di elencare i problemi. C’è lo sfruttamento lavorativo dei minori, «persistono frammentazione e precarietà, condizioni di lavoro insicure, divari salariali». La soluzione non passa per l’assistenza pubblica, ma per una qualificazione del lavoro. Deve esserci «un vero e proprio diritto soggettivo alla formazione in capo al lavoratore», utile anche per le imprese, che «cercano personale qualificato e formato».
L’Italia ha anche un alto tasso di inattività, ossia di individui che non lavorano né cercano occupazione. L’«assillo costante» delle istituzioni, quindi, deve essere quello di «ampliare la base del lavoro e la sua qualità». Ma il ruolo decisivo resterà sempre in capo ai privati: «Non sarà possibile creare nuovo lavoro, sostenere le innovazioni necessarie, affrontare con coraggio e creatività la competizione dei mercati, senza il protagonismo delle imprese, grandi, medie e piccole».