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Paolo Zangrillo, il piano per "contratti indeterminati e 170mila nuovi assunti"

Paolo Zangrillo

Francesco Specchia
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Paolo Zangrillo, conosce, nel solco di Adriano Olivetti, l’arte di fare del dipendente felice il motore di un sistema produttivo. Tipo quello italiano. Non è cosa scontata. Classe ’61, milanese fratello del più noto dottor Alberto, estrazione berlusconiana, già supermanager di multinazionali, Zangrillo concepisce il ministero della Funzione Pubblica che governa – silente- come il luogo delle riforme e dell’ottimismo.

Caro ministro Zangrillo, lei ha annunciato che il governo avrebbe presentato le modifiche del Pnrr alla Ue entro fine mese. La Corte dei Conti certifica che su 67 miliardi è stato speso circa il 12% del piano. Il 6% se non si tiene conto delle recrudescenze del bonus 110%. È preoccupato?
«Il Pnrr che abbiamo ereditato era stato concepito in un contesto molto diverso: non c’erano la guerra, l’inflazione a due cifre, la crisi delle banche. Abbiamo ripensato la governance del Piano per renderla più efficace. Con la commissione europea stiamo dialogando per condividere una rimodulazione dei progetti che tenga conto del mutato contesto. Penso che entro l’estate arriveremo ad una sintesi condivisa con l’Ue».

Ma, scusi, alcuni - anche della maggioranza (Molinari e, sembrava, il ministro Crosetto che però ha smentito) - pensano sia meglio spendere soltanto i soldi che si possono spendere, gli altri meglio restituirli. È d’accordo?
«È ovvio che l’obiettivo è che siano utilizzate tutte le risorse del Piano. Per alcuni progetti che richiedono tempi più lunghi rispetto alla scadenza del 2026 stiamo valutando, in accordo con l’Unione Europea, l’opportunità di spostarli verso i fondi di coesione, che hanno tempi più dilatati».

Ma perché questo ritardo? È un fatto storico? Il governo Draghi ha davvero sbagliato i concorsi dei tecnici, o abbiamo reso poco appetibili economicamente i nuovi posti di lavoro?
«Ci sono state alcune difficoltà per gli enti attuatori del Pnrr per le modalità di assunzione previste dallo stesso Piano, a tempo determinato. A questo problema stiamo dando una tempestiva risposta: nel decreto Pa pubblicato da poco in Gazzetta Ufficiale è prevista la possibilità per gli enti territoriali di stabilizzare i contratti a tempo determinato. I requisiti devono essere l’entrata per concorso, almeno trentasei mesi passati nella Pa fino al 2026, e ovviamente il valore dimostrato sul campo. Questo rende più attrattivo l’impiego nella Pubblica amministrazione e favorisce l’ingresso di profili di competenza in grado di darle valore aggiunto. Solo attraverso competenze adeguate possiamo garantire a cittadini e imprese servizi pubblici di maggiore qualità in tempi più rapidi».

E ciò è encomiabile. Ma c’è chi, come Sabino Cassese, già ministro della Pa, la critica. Afferma che le 170mila assunzioni nel pubblico da lei annunciate siano troppe, e che pensare ai posti statali come bacino elettorale sia mera illusione. Cosa risponde?
«Ho risposto al professor Cassese sul Corriere della Sera. Mi lasci ricordare che, per via del blocco del turn over, tra il 2010 e il 2020 abbiamo perso 300mila lavoratori, passando da 3,5 a 3,2 milioni di dipendenti. Contestualmente l’età media è aumentata da 44 anni del 2010 a quasi 50 anni. Oggi abbiamo quindi bisogno di forze fresche e giovani. Per questo motivo nel 2022 abbiamo assunto 157mila persone e altre 170mila, appunto, tra turn over e ingressi di nuove competenze, entreranno nel 2023».

Cassese parla soprattutto delle necessità di premiare il merito. Mi ha ricordato una vecchia battuta di Sergio Romano sulla riforma delle feluche: “Se devo imporci figure nuove, che almeno siano bravi, perché di cretini abbiamo già i nostri...”.
«Sul tema del merito seguo il professor Cassese. Il merito dev’essere una condizione irrinunciabile anche nel lavoro pubblico; non è soltanto una questione di quantità, ma anche di qualità. E per raggiungerla ci vuole soprattutto la formazione. È stata una sorpresa amara scoprire, quando sono diventato ministro, che il tempo medio dedicato alla formazione è di un giorno l’anno per dipendente. Per questo abbiamo emanato una direttiva che prevede un impegno per le amministrazioni a triplicare il tempo dedicato alla formazione. Ma è ancora poco».

In effetti è pochissimo. La formazione nella Pa è storicamente materia plotinania, il nulla. E come pensa di risolverla?
«Da qualche settimana è attiva una versione aggiornata di Syllabus, la piattaforma per l’e-learning a cui tutte le amministrazioni possono accedere per una tempestiva offerta formativa alle persone. Per le procedure concorsuali, dal mese di giugno tutte le amministrazioni le avvieranno attraverso il portale in Pa, in modo completamente digitale, saltando per altro l’obbligo della pubblicazione dei bandi sulla Gazzetta Ufficiale».

Vi si mazzuola anche sulla scuola. Lei è d’accordo sul fatto che, con la denatalità, sia necessario aumentare il numero degli insegnanti, ma semmai firmarli e pagarli meglio?
«Il problema non è ridurre gli insegnanti in ragione del fatto che avremo meno studenti, ma fare tutto ciò che serve per invertire la curva del calo demografico. Vorrei sfatare due narrazioni fuorvianti, quella di una Pa obsoleta e seduta su sé stessa e quella di una scuola pubblica inadeguata. Ho lavorato per molti anni sia nel privato che nel pubblico e non vedo differenze sostanziali. In entrambe le organizzazioni la possibilità di produrre performance eccellenti passa attraverso la capacità di motivare le persone, che sono il vero motore delle organizzazioni. Per questo una corretta declinazione del merito è elemento essenziale perla crescita dell’individuo e delle organizzazioni».

A proposito della sua affezione verso il pensiero di Adriano Olivetti e della sua idea di “Comunità”, eh...
«La valorizzazione del capitale umano è un’idea che richiama la straordinaria figura di Olivetti, un imprenditore illuminato che aveva compreso quanto un dipendente soddisfatto sia elemento essenziale per il successo di un’azienda. Quello sulle persone è il più importante e strategico degli investimenti».

Che mi dice del tetto degli stipendi (240mila euro) per i dipendenti pubblici?
«È opportuno per chi ricopre un ruolo da “civil servant”: è giusto dare il buon esempio, ci deve essere un “tetto etico”. Diverso è il discorso quando si parla di ruoli professionali e manageriali che devono confrontarsi con i valori del mercato: è difficile pensare che un bravo professionista accetti retribuzioni significativamente inferiori. Anche in questo caso mi piace richiamare la cosiddetta “regola morale” di Olivetti: come sosteneva l’imprenditore di Ivrea bisogna dare sempre un’idea di rispetto». 

L’occupazione è salita al 60.5%, sempre poco ma è il nostro record dal ‘77. Tra gli assunti molti sono in pianta stabile. Ma si tratta di “lavoro povero”; e solo il 10% degli assunti è donna. Ne è consapevole? Riusciremo ad adeguare i nostri stipendi alla media europea?
«Le retribuzioni sono senza dubbio una delle leve motivazionali su cui fare forza per rendere attrattiva le organizzazioni. A questa bisogna affiancare quella della produttività: per distribuire ricchezza bisogna prima produrla. Ci stiamo lavorando, ma bisogna tenere conto del contesto economico in cui operiamo. Per adeguare gli stipendi a quelli del “best classing” dobbiamo uscire da questa tempesta perfetta. Ma le previsioni economiche ci danno ragione».

È conscio anche della vulgata che ritiene gli stipendi della Pa poco appetibili?
«Inviterei chi dice “la pubblica amministrazione paga poco” a confrontare i nostri salari di entrata con quelli degli studi di avvocati odi ingegneri: quelli della Pa sono sicuramente competitivi. Certo, dobbiamo essere capaci di far cresce le retribuzioni nel tempo, come succede nel privato».

Lei ha parlato differenza fra “lavoro fisso” e “lavoro figo”. Che cosa intendeva?
«Sono stato sollecitato più volte sul valore del posto fisso nella Pa. Non nego che la stabilità sia un valore, ma oggi i nostri giovani non si accontentano più, vogliono un lavoro che sia anche attrattivo. Ecco perché al posto fisso io dico che è preferibile offrire un posto figo: quello che sa valorizzare i giovani, offrendo loro opportunità di formazione e quindi prospettive di carriera, oltre a un adeguato bilanciamento tra vita professionale e privata».

I sindacati, con questo governo, vivono sollecitazioni allo sciopero direi pavloviane. Con lei non sono particolarmente teneri e annunciano uno sciame di scioperi. È triste?
«Hanno un forte approccio rivendicativo e io continuo a confrontarmi con loro. Con riferimento alla Pa, in particolare, lamentano la mancata definizione nel Def di previsioni puntuali sui rinnovi contrattuali. Ricordo che per postare le risorse per il rinnovo del triennio 2019-2021 ci sono volute ben quattro manovre di bilancio. Spero non ne servano altrettante per il 2022-24. Mi sono battuto per far sì che all'interno del Def venisse indicato un impegno ai rinnovi contrattuali».

Il Sole scrive che per i rinnovi contrattuali servono 32 miliardi. È credibile?
«Praticamente un’intera legge di bilancio, per far fronte ai contratti pubblici. Le sembra credibile?».

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