Luciano Violante: "L'utero in affitto crea una nuova schiavitù"
C’è stato un momento in cui l’Italia sembrava avviata a chiudere le ferite della guerra e quelle seguenti alla Liberazione. Fu quando Luciano Violante venne eletto presidente della Camerae nel suo discorso d’insediamento invitò tutti, ma soprattutto la sua parte politica, a «riflettere sui vinti di ieri; non perché avessero ragione», ma perché era necessario capire «i motivi per i quali migliaia di ragazzi e soprattutto di ragazze, quando tutto era perduto, si schierarono dalla parte di Salò».
Presidente, segue a pagina 11 sono passati 27 anni da quel giorno e le ferite, anziché rimarginarsi, sembrano più aperte di allora. Lo vedremo anche questo 25 aprile. Lei come se lo spiega?
«Alcuni, a destra come a sinistra, propugnano il conflitto permanente come manifestazione di identità. I primi considerano la Liberazione un evento “comunista” e quindi da rifiutare in quanto tale; gli altri manifestano una idea proprietaria dell’evento fondativo della nostra democrazia. Io credo che la politica consista nel misurarsi con l’altro, nello spostare forze. Ma tanto a destra quanto a sinistra esistono posizioni che preferiscono chiudersi nei propri ristretti circoli, guardarsi permanentemente allo specchio, rifiutando questa idea aperta della politica».
Una responsabilità diffusa, quindi.
«Sì, ma con livelli di diversa gravità».
Sarà lunga, insomma. Intanto una parte importante della sinistra trova comodo usare la pregiudiziale antifascista come strumento di lotta politica quotidiana.
«L’antifascismo è il fondamento della nostra Repubblica. La Costituzione lo fa proprio quando vieta la ricostituzione del disciolto partito fascista e quando garantisce quei diritti e quei valori che furono schiacciati dal fascismo. Come tutte le cose preziose, però, non va strattonato».
Anche perché, come ha dimostrato la campagna elettorale di Enrico Letta, usare l’antifascismo come argomento principale contro gli avversari non produce risultati pratici.
«Quel richiamo all’antifascismo era fuori luogo, soverchiò le proposte programmatiche, non fu premiato dal risultato elettorale. È comunque un errore qualificare l’intera destra come fascista. Tuttavia, a volte, da esponenti autorevoli della destra, vengono pronunciate valutazioni razziste e nostalgiche assolutamente infelici che nuocciono al Paese».
Leggo dal suo libro “La democrazia non è gratis”: «Un aiuto politico, seppure inconsapevole e involontario, all’aggressione culturale contro l’Occidente arriva dalla cancel culture, orientamento assai diffuso nel mondo anglosassone. Si tratta di un’ideologia che intende cancellare dalla memoria opere e personaggi del passato o interpretazioni della storia ritenute simboli di vergogne dell’Occidente e comunque non in linea con l’ideologia attualmente in auge del politicamente corretto». Vede germi di questa tendenza anche in Italia?
«Noi siamo un Paese troppo libero, con una storia troppo grande e una cultura troppo profonda per cadere in quella stupida trappola».
Norberto Bobbio e Pier Paolo Pasolini, ad esempio, dovrebbero essere due capisaldi della sinistra, eppure le loro parole contro l’aborto non hanno diritto di cittadinanza nel dibattito della sinistra.
«Tanto Bobbio quanto Pasolini, per fortuna, sono tutt’altro che cancellati».
A gennaio, intervistato dal Riformista, lei disse che al Pd, dopo le primarie e il congresso, sarebbe servito «un pensiero, non uno slogan». Quale pensiero vede dietro l’azione di Elly Schlein?
«È ai primi passi. Lasciamole il tempo necessario per disegnare la propria strategia. L’impegno sui temi del lavoro e della casa e la disponibilità ad incontrare il presidente del consiglio sul Pnrr credo che siano fatti positivi».
Che il Pnrr vada nel migliore dei modi è interesse di tutti. Su quali altri temi di questa legislatura, realisticamente, ritiene che maggioranza e opposizione possano e debbano collaborare? «Per collaborare bisogna essere d’accordo in due. Adesso, realisticamente, non vedo questa possibilità ed auspicarla avrebbe solo l’effetto di moltiplicare i sospetti da entrambe le parti, allontanandone la praticabilità».
Crede che Elly Schlein sia il leader giusto per riconnettere il Pd con le periferie e le province d’Italia? La mobilitazione sui diritti, Lgbt e non solo, può fare breccia in quei milioni di elettori che non guardano più a sinistra?
«Mi pare che il numero di nuovi iscritti e i sondaggi di opinione siano per lei positivi. I diritti di libertà individuale vanno bene, purché non siano solo riconoscimento di soggettivi egoismi; per fortuna si sta delineando un giusto impegno per i diritti sociali. Io, poi, mi aspetto che un leader di sinistra cominci ad affrontare il tema dei doveri, senza i quali le comunità si autodistruggono».
A quali doveri si riferisce, in particolare?
«Cito un dovere che comprende tutti gli altri: il rispetto. Il rispetto per le persone, per le istituzioni, per le cose; per le generazioni di oggi e per quelle che verranno».
Quando dice che i diritti non debbono trasformarsi in «soggettivi egoismi» pensa anche alla possibilità che coppie omosessuali o eterosessuali affittino l’utero di una donna per soddisfare il loro “diritto” ad avere un figlio?
«Ciò che oggi può apparire un diritto, domani può diventare una fonte di nuova schiavitù. Un limite insuperabile all’esercizio dei diritti è la non commerciabilità del corpo umano. La commerciabilità del corpo genera oppressione sociale. È nostro dovere civile evitarla».
Periodicamente si torna a parlare della “bozza Violante”, quella che lei scrisse nel 2007 e assegnava al premier il potere di nomina e di revoca dei ministri. Uno degli scopi era rendere più stabili i governi, ed è lo stesso obiettivo che dovrebbe perseguire il governo Meloni. Oggi sul tavolo c’è il premierato, l’elezione diretta del premier.
«L’elezione diretta del presidente del consiglio sarebbe un errore, perché creerebbe uno squilibrio profondo nei confronti del Quirinale. L’aveva adottata Israele, che poi l’ha giustamente abrogata».
Israele però non ha risolto il problema della governabilità: è l’unica democrazia nella quale i governi sono più instabili che da noi. Quale può essere la strada per l’Italia?
«La fiducia del parlamento al solo presidente del Consiglio, che, dopo averla ottenuta, forma il governo; l’introduzione della sfiducia costruttiva, ovvero l’impossibilità che il parlamento voti la sfiducia al governo in carica se, contemporaneamente, non indica il futuro presidente del consiglio, che con quel voto si intende immediatamente immesso nelle funzioni; la facoltà del presidente del consiglio di proporre al presidente della Repubblica non solo la nomina, ma anche la revoca dei ministri; il voto del parlamento in seduta comune su fiducia e legge di bilancio. Simili riforme potrebbero favorire la decisione politica senza sacrificare la democrazia».
Uno dei passi più importanti e più contestati della riforma della giustizia messa in cantiere dal ministro Nordio è l’abolizione del reato d’abuso d’ufficio, o una sua profonda revisione. Da sinistra, lei fu uno dei primi a contestare la legge che lo disciplina, definendola l’equivalente di «un mandato a cercare». È uno di quei casi in cui maggioranza e opposizione dovrebbero collaborare?
«Ci sono norme penali come l’abuso in atti d’ufficio o il traffico di influenze, ad esempio, che hanno l’unico effetto di autorizzare perquisizioni, sequestri, interrogatori e in alcuni casi persino intercettazioni telefoniche. Il presupposto culturale è che la pubblica amministrazione e il mondo degli affari siano di per sé ambienti infetti e quindi è bene autorizzare il massimo di pervasività della inquisizione penale. È la prevalenza della cultura del sospetto, che è frutto e causa di inciviltà. Il legislatore a volte è travolto dalla passione di punire; deve invece convincersi che, per la regolazione della vita sociale, l’intervento penale dev’essere un’eccezione e non la regola».