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Di Maio, da Pinochet a Ping: ecco tutti gli strafalcioni

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Corrado Ocone
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La domanda sorge spontanea. Ora che è stato nominato Inviato Speciale dell’Unione Europea per il Golfo Persico, Luigi Di Maio saprà almeno vagamente da che parte del globo si trova questo posto? Prenderà l’aereo giusto? Il nostro con la geografia, e in verità anche con la storia e tanto altro, ha sempre dimostrato di fare a pugni. Memorabile, sotto tutti gli aspetti, fu il suo viaggio in Francia in utilitaria, con Alessandro Di Battista alla guida, per stringere alleanza con i gilet gialli, cioè dei teppisti che avevano messo a ferro e fuoco le città d’oltralpe. Ne scaturì una crisi diplomatica. Di Maio, che era allora vicepremier, cercò di rimediare allla buona e meglio: presa carta e penna, scrisse una lettera a Le Monde in cui si rubricava la visita a una scompagnata fuori porta e si sottolineava, come captatio benevolentia, che la Francia era per noi italiani un modello perla sua «tradizione democratica millenaria». Il che è francamente troppo per un Paese che ha fatto una Rivoluzione contro l’assolutismo solo due secoli e mezzo fa.

 

 

 

IL REFUSO NELLA BIOGRAFIA

D’altronde, che l’allora leader grillino avesse le idee un po’ confuse lo aveva dimostrato già nel 2016, quando non era ancora al governo ma già in forte ascesa come protagonsta politico. In un post su Facebook parlò allora dei «tempi di Pinochet in Venezuela», confondendo Caracas con Santiago del Cile come se non fossero le capitali di due Paesi ai poli opposti del continente sudamericano. E che dire di quando, in conferenza stampa con il segretario di stato americano Mike Pompeo, lo chiamò Ross, forse pensando a “Gigi e Ross”, il duo comico napoletano.

Un capitolo a parte, anzi forse un libro intero, meriterebbe poi “la lingua di Di Maio”, fatta di errori grammaticali e sintattici, nonché di pronuncia, che le danno un tono fra il comico e il surreale. Ed ecco Xi Jimping diventa a più riprese (anche in una visita ufficiale a Shangai) Ping, i congiuntivi vengono sistematicamente confusi con i condizionali in quella che pure dovrebbe essere la sua lingua madre, l’inglese alquanto zoppicante viene tuttavia esibito ostinatamente (non sarebbe meglio affidarsi a un buon raduttore?).
Ovviamente, anche Di Maio non si è fatto mancare un libro: pur non avendone probabilmente letto molti nella sua vita, ne ha scritto uno intitolato “Un amore chiamato politica” (Piemme). Poteva mancare il refuso? Puntuale lo si trova quando si parla del suo viaggio in America subito dopo la firma della Via della Seta (una figura sequispedale con i nostri alleati). Ad accoglierlo, scrive Di Maio tutto pieno di sé, fu il consigliere per la sicurezza di Trump in persona, Michael Bolton. Ovviamente, era John e non il celebre cantautore.

LA POVERTÀ ABOLITA

Ma surreale, direi una gaffe, è stata tutta l’irresistebile carriera di questo politico che oggi assurge agli onori di grande statista e diplomatico. Fra una richiesta di impeachment a Mattarella e una «abolizione della povertà per decreto» festeggiata sul balcone di Palazzo Chigi, la biografia di Di Maio è il simbolo stesso della logica grillina (che forse oggi lui stesso criticherebbe pubblicamente): “uno vale uno”, ma meglio sarebbe a dire: “Franza o Spagna purché se magna”, cioè si conquista il potere. Per il governo italiano, che non aveva espresso parere favorevole su questa nomina, si può dire che al danno si unisca oggi la beffa, se Joseph Borrell, l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, ha voluto farci sapere che il nome di Giggino è “il più adatto” per il prestigioso incarico. 

 

 

 

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