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25 Aprile, "negozi chiusi": l'ultima follia della sinistra

Hoara Borselli
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Fino a un paio di settimane fa i partigiani italiani in vita erano 30. Nei giorni scorsi è morto Citto Maselli, aveva fatto la Resistenza a Roma, nei Gap, a 13 anni. Ora i partigiani in vita sono 29.
Non so quanti di loro siano iscritti all’Anpi. Non so quali siano le loro idee e quanti di loro siano comunisti. So che il capo dell’Anpi si chiama Pagliarulo, è nato nel Dopoguerra, non ha partecipato a nessuna gloriosa lotta di liberazione, ha un passato politico molto modesto. Dicono che sia stato un fedelissimo di Armando Cossutta, capo dell’ala stalinista del Pci, ma nessuno ha molti ricordi di lui. E ora Pagliarulo vorrebbe decidere lui gli orari dei negozi di Bologna? E perchè mai? Perché dice di essere il capo dell’antifascismo. E chi lo ha nominato? E chi ha detto che i negozianti debbano rispondere all’antifascismo? I negozi aperti sono un favore allo shopping, vanno chiusi!

 

 

Questo il diktat dell’Anpi, per voce di Anna Cocchi, presidente della associazione dei partigiani di Bologna, che vuole le saracinesche degli esercizi commerciali serrate il 25 Aprile. La motivazione? Generano profitto. 

Ho sempre pensato che un negozio abbia motivo di esistere proprio perché genera profitto, e che un esercente speri di vendere la merce che espone e non che la si contempli come un’opera al museo.

DAGLI AL PROFITTO - Non contenta la Cocchi spiega ché in fondo «non si tratta di servizi essenziali». Chi stabilisce cosa sia o meno essenziale? Probabilmente per chi sceglie che in campagna fuori porta, quell’eventuale profitto è essenziale eccome. E chi stabilisce che il lavoro rappresenta uno sfregio alla Resistenza? Vorrei invitare la Signora Cocchi a ripassare l’Art.4 della nostra bella Costituzione che ci dice che la Repubblica riconosce ai cittadini il diritto al lavoro che non è solo un diritto personale ma è anche un dovere sociale. E come tale, nei giorni in cui molti turisti popoleranno le nostre città offrire loro un servizio è sicuramente cosa buona e giusta.

 

 

«Nel calendario civile che scandisce il nostro tempo», ribadisce la Cocchi «il 25 Aprile è una data fondamentale: si celebra la Liberazione dal nazifascismo, l’Italia torna ad essere un Paese libero e democratico. Per questo sento il bisogno di ribadire queste che possono sembrare cose scontate a fronte dei tanti, troppi, esercizi commerciali che invece resteranno aperti». Proprio perché l’Italia è un Paese libero e democratico ci dev’essere qualcuno che impone ad altri cosa devono o non devono fare? Questa è l’assoluta negazione della libertà. Capite il cortocircuito ideologico di questa Associazione sempre più scollata dalla realtà? Ci pensa l’Anpi a colmare l’incasso mancato di questi esercenti? Può spiegarci la signora Cocchi la differenza fra chi onorerà la Resistenza gustandosi una grigliata nel parco e chi invece decide di stare nel suo negozio offrendo un servizio alla collettività e perché no, al suo portafogli? L’Anpi, in buona sostanza, sembra attribuire ai commercianti la “colpa” di lavorare. Non si è fatta attendere la risposta della Lega, per voce del capogruppo Matteo Di Benedetto in consiglio comunale: «Ci vuole rispetto per i commercianti e per chi lavora. Chi decide di tenere aperta la propria bottega evidentemente ne ha bisogno, giudizi approssimativi sulle intenzioni altrui non sono propri di uno Stato liberale e antifascista. Libertà per i commercianti di fare il loro lavoro, al di là di ogni pregiudizio dell’Anpi». 

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