Immigrazione, la sinistra ci prova con Mattarella: il retroscena
E dire che i precedenti parlano chiaro. Una sola volta Sergio Mattarella, nei 2.993 giorni trascorsi sinora al Quirinale, ha rimandato una legge alle Camere. Era il 27 ottobre del 2017, la maggioranza parlamentare era di centrosinistra, a palazzo Chigi c’era Paolo Gentiloni e il capo dello Stato, «a norma dell’art. 74, primo comma, della Costituzione», si rifutò di firmare una legge che avrebbe dovuto contrastare il finanziamento delle imprese produttrici di mine antiuomo e bombe a grappolo, e chiese al parlamento «una nuova deliberazione». Quel testo, spiegò, presentava «profili di evidente illegittimità costituzionale», perché metteva al riparo dalle sanzioni penali alcuni finanziatori (non tutti) di quegli ordigni vietati, violando quindi il principio di uguaglianza fissato dalla Costituzione, e perché contrastava con due convenzioni internazionali sottoscritte dall’Italia. Altre volte (poche, tra cui una durante il governo Draghi e un’altra a febbraio col decreto Milleproroghe) Mattarella ha espresso «perplessità» sul testo di un provvedimento, firmandolo comunque.
Rifiutarsi di promulgare una legge inviando un «messaggio motivato alle Camere», insomma, è un’arma estrema, cui il capo dello Stato ricorre solo se ci sono vizi evidenti di legittimità costituzionale, che includono il rispetto degli «obblighi internazionali» fissato dall’articolo 117.
Invece, ogni volta in cui spunta un provvedimento indigeribile per la sinistra, inizia il pressing su di lui affinché non lo firmi. Ora tocca al “decreto Cutro” nella sua ultima formulazione, con cui il governo cancella quella “protezione speciale” che, sostiene il capo dei senatori di Fdi, Lucio Malan, «è diventata un passepartout per qualsiasi immigrato irregolare per accedere e restare in Italia». Così Repubblica titola che «La destra sfida il Quirinale», mentre per La Stampa «la Lega sfida il Quirinale» e Matteo Salvini mira a provocare «un incidente» tra Meloni e Mattarella.
La speranza a sinistra è proprio quella: che il presidente della repubblica non firmi e scoppi un conflitto istituzionale. Il solito tiramento della giacca cui partecipa pure l’opposizione parlamentare: Luana Zanella, capogruppo rossoverde alla Camera, dice che «il governo Meloni ha deciso di ignorare la lezione del presidente Mattarella» (e quindi è chiaro ciò che ci si aspetta da quest’ultimo). Da martedì, quando il decreto arriverà nell’aula del Senato, urla e appelli si moltiplicheranno.
Stesso copione che a sinistra avevano inscenato col “decreto Piantedosi” per regolare l’attività delle ong, col disegno di legge delega per la riforma fiscale e con altri provvedimenti: tutti firmati dal capo dello Stato. Rimarranno delusi pure stavolta. Non perché Mattarella condivida ciò che è scritto nel “decreto Cutro”, ma perché il suo compito è un altro. Lo spiegò lui stesso, sempre in quell’ottobre del 2017, ad alcune scolaresche: «C’è un caso in cui posso, anzi devo, non firmare: quando arrivano leggi o atti amministrativi che contrastano palesemente, in maniera chiara, con la Costituzione. Ma in tutti gli altri casi non contano le mie idee: ho l’obbligo di firmare».
L’Italia è una repubblica parlamentare, e la responsabilità di scrivere e approvare o respingere le leggi spetta infatti agli eletti dal popolo. I suoi consigli, il capo dello Stato ha avuto modo di farli arrivare al governo nei giorni scorsi, e sono di tipo pratico, non ideologico: sarebbe un errore trasformare in clandestini persone che sono in Italia da mesi e magari hanno imparato la nostra lingua, si sono integrate e lavorano. Detto questo, non ci sono motivi costituzionali per difendere la protezione speciale, né esistono convenzioni internazionali che obblighino l’Italia a mantenerla. Mattarella, quindi, controllerà con la dovuta attenzione il testo finale del decreto, come sempre si fa sul Colle prima della firma, ma da ciò che già si sa di quel provvedimento non si farà trascinare sul terreno dello scontro istituzionale col governo, come invece sognano a sinistra.