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Pnrr, il piano di dem e grillini: come vogliono far saltare tutto

Sandro Iacometti
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Una cosa, per ora, è certa: coi ritardi del Pnrr il governo di Giorgia Meloni non c’entra niente. Le difficoltà sulla spesa certificate dalla Corte dei Conti si riferiscono al biennio 2020-2022 ed erano ben evidenti anche nell’autunno dello scorso anno. Mentre per quanto riguarda i tre obiettivi su cui a Bruxelles stanno storcendo il naso (concessioni portuali, sistemi di teleriscaldamento e piani urbani integrati) erano tutti già stati approvati prima che ci fosse il cambio della guardia a Palazzo Chigi.

Si tratta ora di capire da dove nasce il polverone che si è sollevato in questi giorni, che, tra le altre cose, ieri ha pure scatenato un parapiglia tra i sindaci (anche tra quelli dem) su chi sia più bravo e più veloce a spendere i fondi. Napoli «sta rispettando i tempi», ha assicurato il primo cittadino Gaetano Manfredi. Roberto Gualtieri, invece, ha scritto al governo per proporre di dare a Roma le eventuali risorse avanzate da altre amministrazioni. Anche Giuseppe Sala, è convinto che i fondi si debbano dare «a chi sa investirli», come Milano ovviamente, che però è indietro su numerose opere. «Sarebbe una secessione», gli ha risposto a stretto giro il governatore della Calabria, Roberto Occhiuto, su cui aleggia il coordinamento “Recovery Sud”, con centinaia di sindaci del Mezzogiorno che lamentano di non essere stati ascoltati e di non essere stati messi nelle condizioni di poter spendere. Insomma, botte da orbi.

 

 

 

SUDDITANZA

Ora, che il Pnrr fosse in panne già quando c’era Mario Draghi al timone lo sapevano anche i sassi, anche se pochi lo dicevano. Perché proprio ora la Ue ha deciso di mettere i bastoni tra le ruote, scatenando un tale putiferio e spingendo il ministro Raffaele Fitto a mettere le mani avanti ed annunciare che alcuni interventi non saranno realizzabili entro il 2026? Le ipotesi sono diverse. E forse collegate tra di loro. La prima di esse è la sudditanza psicologica dell’universo-mondo nei confronti di Mario Draghi. Quando ha scritto il Pnrr nessuno ha battuto ciglio.

Persino l’idea (un po’ bizzarra) di destinare i fondi al nuovo stadio Franchi piuttosto che alle periferie degradate di Firenze è piaciuta a tutti. Insomma, a Super Mario non si nega nulla. La seconda, che non esclude la prima, è che, una volta uscito di scena l’ex capo della Bce, tutti hanno iniziato a farsi i loro calcoli. A partire dai Paesi del Nord Europa guidati dalla Germania, che hanno inghiottito malvolentieri il Recovery plan, e che ora si vedono all’orizzonte la minaccia di un fondo sovrano per la competitività delle imprese (di fatto un Pnrr bis) su cui la Commissione dovrà fare fare una proposta prima dell’estate. Quale miglior modo di troncare sul nascere la discussione se non quello di mostrare il fallimento del progetto certificato dall’impasse dell’Italia? Un’occasione ghiotta che si inserisce in uno scenario continentale e italiano in cui è già iniziata la campagna elettorale per le europee del prossimo anno. Sventolare sotto il naso di socialisti Ue e dem nostrani la carota di un governo di centrodestra che inciampa sul Pnrr rappresenta un richiamo ovviamente irresistibile, con buona pace dell’interesse dell’Italia, a cui non frega niente a nessuno. A partire dal nostro Pd, che ieri si è avventato sull’intoppo chiedendo a gran voce al governo che vada in aula a fare chiarezza sullo stato di attuazione del Piano. In altre parole, mezza Europa, con il sostegno delle opposizioni (pure Giuseppe Conte, primo autore e quindi primo responsabile delle magagne Pnrr, ieri si è gettato nella mischia dicendo che non un euro dovra essere perso), tifa contro il successo dell’Italia... pardon, del governo.

 

 

 

COMMISSARIO DEM

Per carità, c’è un commissario europeo, guarda caso pure lui dem che risponde al nome di Paolo Gentiloni, che nega qualsiasi accanimento politico sull’esecutivo: «L'Ue lavora assieme all'Italia e non ha alcuna voglia di riproporre a Bruxelles divisioni interne alla politica italiana». Ma credere all’expremier diventa ogni giorno più difficile. Anche perché fino a ieri non faceva altro che alimentare la favola del Pnrr come panacea formidabile e imperdibile di tutti i mali dell’Italia ben sapendo che non si tratta di altro che di prestiti più vantaggiosi rispetto ai Btp con cui il Paese sta finanziando una larghissima parte di opere già incardinate e di una versione più ampia e vincolata dei fondi europei già esistenti che non siamo quasi mai (neanche lui quando era presidente del Consiglio) riusciti a spendere nei tempi previsti. In ogni caso, malgrado il trappolone perfetto che si sta profilando, il governo non sembra intenzionato a perdersi d’animo. «Non c'è preoccupazione, c'è consapevolezza, e stiamo lavorando in maniera propositiva con la Commissione», è l'invito alla calma arrivato da Bruxelles dal ministro per gli Affari Ue, la Coesione e il Pnrr, Raffaele Fitto. L'ex eurodeputato è tornato nella capitale belga per aggiornare il negoziato con l'esecutivo Ue con un duplice obiettivo: incassare il via libera alla terza tranche e arrivare ad uno spazio di manovra che consenta di spostare dal Pnrr alla programmazione di Coesione quei progetti che, entro il 2026, sono irrealizzabili. A Bruxelles Fitto ha visto tre commissari, ha avuto incontri tecnici, ha incontrato la delegazione di Fdi all'Eurocamera e ha annunciato che sarà presentata «una relazione che andrà a fotografare lo stato attuale anche con delle proposte di cambiamento che andranno affrontate d'intesa con l'Ue». Mosse che potrebbero anche funzionare, se il problema fosse tecnico e non politico. 

 

 

 

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