L'intervista al ministro
Migranti, Urso: "Bisogna liberare l'Africa", la minaccia russo-cinese
Senatore Adolfo Urso, lei è ministro delle Imprese e del Made in Italy. Perché cambiare nome al vecchio dicastero dello Sviluppo?
«La destra è per la difesa delle imprese e quindi dei lavoratori o, se si preferisce, dei lavoratori e quindi delle imprese. Anche per questo motivo, Giorgia Meloni ha voluto cambiare la denominazione del ministero. Per dare un indirizzo politico specifico alla nostra attività. Per noi contano le persone che attivano il processo produttivo e che collaborano nel processo produttivo, quindi gli imprenditori, i lavoratori e anche i consumatori».
E il Made in Italy?
«Il Made in Italy non è semplicemente un luogo di produzione, è diventato nella percezione comune un marchio di qualità, di eccellenza. È uno stile di vita, un modello, una cultura, un'arte, una creazione, una storia».
E come si difende?
«Io vengo da due importanti esperienze. La prima è quella da viceministro del Commercio con l'estero. Sono stato il negoziatore italiano nel vertice del WTO che si tenne a Doha, nel Qatar, nel novembre 2001, poche settimane dopo l'undici settembre, quando il mondo tentava di unirsi per combattere quello che allora sembrava il nemico principale, Al Qaeda. E mentre gli aerei dell'Alleanza sorvolavano il Qatar per colpire le basi di Al Qaeda in Afghanistan, il mondo pensò di coinvolgere la Cina nella governance dell'economia globale. L'anno dopo Berlusconi a Pratica di Mare cercò di coinvolgere la Russia nella governance della sicurezza globale».
Oggi sembra fantascienza.
«La storia ci dice che il treno delle libertà è tornato indietro ed oggi dobbiamo fronteggiare un'epoca del tutto diversa, il ritorno degli autoritarismi e degli imperialismi che premono sull'Occidente, sull'Europa, sul Mediterraneo».
E la seconda esperienza?
«Nella scorsa legislatura sono stato il presidente del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, proprio mentre l'Occidente si ritirava da Kabul e prima ancora doveva fronteggiare la pandemia e poi la guerra della Russia in Ucraina. Nelle nostre relazioni al Parlamento abbiamo evidenziato come il settore finanziario, bancario, assicurativo la sicurezza energetica, l'avventura dello spazio, il sistema produttivo, le tecnologie siano elementi che vanno guardati insieme perché sono anch'essi determinanti per la nostra indipendenza, per la nostra sovranità, per la nostra autonomia».
C’entra qualcosa la guerra ibrida?
«Certo. La guerra ibrida nei confronti dell'Occidente utilizza tutti i sistemi, dal grano all'energia, dall'acqua all'immigrazione».
Anche l’immigrazione?
«Nel settembre 2021 cioè poche settimane prima dell'invasione della Russia in Ucraina ci fu un ponte aereo che trasportò decine di migliaia di profughi siriani, iracheni, afgani che furono portati in Bielorussia».
Chi li portò?
«Chi gestì quell'operazione voleva indirizzarli verso la frontiera europea e guarda caso proprio della Polonia e dei Paesi baltici, che erano e sono i principali supporter dell'Ucraina. Chi non ricorda le accuse che facemmo ai polacchi e i lituani e gli altri baltici perché alzavano la frontiera per fermare quella massa di disperati che veniva spinta verso di loro».
Spinta da chi?
«Dalla Bielorussia, cioè dalla Russia per far entrare in crisi l'Europa prima di invadere l’Ucraina. Ecco, se quello è accaduto nella frontiera nord orientale dell'Europa, lei pensa che non accada in quella meridionale dell'Africa, dove non c'è frontiera, dove c'è il Mar Mediterraneo?».
Come si combatte la guerra ibrida?
«Gran parte dell'Africa ormai è sotto l'orbita di Russia e Cina che proprio qualche giorno fa hanno tenuto unvertice a Mosca per pianificare come penetrare e dominare alcuni continenti per condizionare l'Occidente. È per questo che l'Europa e l'Italia devono praticare una politica nei confronti dell'Africa. Enrico Mattei insegnò prima all'Italia e forse anche all'Europa e all'Occidente, che si poteva realizzare una politica win win nei confronti della sponda sud del Mediterraneo o dell’Africa del Medio Oriente. Noi dobbiamo riprendere quella politica per crescere insieme a loro e liberare il continente africano dalla penetrazione cinese e russa che oggi rischia di accerchiare l’Europa, sostanzialmente prendendo il monopolio di quello che ci serve nella nostra transizione, del nostro sviluppo economico, sociale e industriale».
Ma l’Europa è pronta a sostenerci?
«L’Italia non può essere lasciata sola, sia perché è la più esposta ai flussi migratori, sia perché è in prima linea per quanto riguarda la penetrazione nell’Africa e nel Medio Oriente. Servono una comprensione e una politica industriale che parta sin dall’inizio dall’autonomia strategica sulle materie prime critiche che ci servono. Bisogna sviluppare subito una seria e significativa politica energetica e industriale nel nostro continente, come hanno fatto gli Stati Uniti, con lungimiranza e non a caso prima dell’Europa. E l’autonomia energetica si può raggiungere grazie proprio all’Italia che può diventare hub del gas europeo. Ma l’Italia non è soltanto questo. È il ponte dell’Europa nei confronti dell’Africa, deve essere chiaro a tutti».
A Bruxelles è chiaro questo concetto?
«Non è un concetto o un’aspirazione è un’assoluta necessità se si rialza il muro di Berlino, se si rialza la cortina di ferro qualche centinaia di chilometri più a oriente di Trieste. L'Europa non solo per l'approvvigionamento energetico ma anche per i suoi canali commerciali deve necessariamente guardare, crescere e svilupparsi a Sud».
Lei ha anche dei legami familiari con l'Ucraina, giusto?
«Mia moglie è nata in Siberia dove tuttora vive suo padre da una famiglia metà russa e metà russofona di Lugansk, dove loro hanno vissuto poi. Quindi sono consapevole forse più di altri del dramma di quei popoli. Ma che gli ucraini si difendano e riescano a tutelare le proprie libertà nel proprio Paese è un nostro interesse nazionale».
La soluzione può arrivare solo attraverso le armi?
«Innanzitutto noi non possiamo dire loro cosa cosa fare. Possiamo da una parte aiutarli a difendersi e nel contempo a sopravvivere economicamente. È ovvio che noi tutti ci auguriamo che la guerra si fermi il prima possibile. Questo deve essere sempre tenuto bene a mente: è l’obiettivo che dobbiamo raggiungere».
Nel frattempo?
«Il 2023 è un anno in cui dobbiamo sviluppare la politica industriale europea perché dobbiamo dare una risposta non tanto e non solo a quello che gli Stati Uniti hanno messo in campo di importante e significativo, ma insieme agli Stati Uniti dobbiamo dare una risposta alla sfida sistemica cinese che è quella della supremazia tecnologica economica anche approfittando della transizione ecologica. Non è un caso che tutti gli elementi critici, le materie prime, la lavorazione ma anche i prodotti siano realizzate dalla Cina».
Quali sono i rischi?
«Non dobbiamo passare dalla dipendenza che abbiamo pagato caro dal carbon fossile russo a quella ancora più grave e significativa della tecnologia e delle materie prime green cinesi. Gli Stati Uniti hanno messo in campo 1.200 miliardi di dollari sulle infrastrutture e poi 280 miliardi sulle nuove tecnologie e infine 370 miliardi di sulla transizione ecologica. A questa risposta così assertiva deve esserci in parallelo una risposta altrettanto assertiva dell’Ue per fronteggiare insieme la supremazia o la sfida sistemica cinese. È quello che noi chiediamo all’Europa, una risposta comune sul fronte dell’immigrazione e contemporaneamente sul fronte della politica industriale. Se l’Europa non risponde si mette a rischio la stessa sopravvivenza dell’Unione europea che abbiamo costruito».
Lei è da tantissimi anni animatore della fondazione Farefuturo, pensatoio della destra, liberale moderna. Ma l’egemonia culturale della sinistra sembra ancora solida. Tempo sprecato o bisogna fare di più?
«La fondazione Farefuturo è la dimostrazione di come si debba fare politica e nel contempo si debba fare politica culturale tanto più nel centrodestra con una prospettiva di governo e quindi con la necessità di affrontare i temi concreti secondo una visione strategica. È importante che ci sia e che continui questa elaborazione culturale. Ritengo peraltro che l’egemonia culturale della sinistra sia messa in crisi dalla storia. È stata costruita su un mondo di illusioni evaporate nel tempo. Ora sono tornati gli imperi, sono tornate le ideologie e sono nati sistemi autoritari che tentano di prevalere sulle nostre sfere di libertà. E questo ha rimesso in discussione molte delle consuetudini su cui la sinistra si era adagiata. La prima delle quali probabilmente è proprio quello secondo cui non esiste più il lavoro, la produzione, l’industria e che invece noi dobbiamo difendere. Quando Giorgia Meloni parla al congresso della Cgil parla al mondo del lavoro italiano e mette in crisi quella che appariva un’egemonia della sinistra italiana. Perché oggi non è un paradosso. Ma è la realtà. Oggi il lavoro viene tutelato o viene difeso in Europa dalla destra, non dalla sinistra. Perché la destra è più consapevole della realtà. E la sa affrontare per quella che essa è. Per questo, nei momenti di crisi, gli elettori chiamano la destra a governare. Perché serve un po’ di sano pragmatismo».