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Landini, la sinistra che scorda i lavoratori per assecondare le élite

Gianluca Mazzini
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La storica visita del premier Giorgia Meloni al Congresso della Cgil insegna due cose: la granitica organizzazione dell’ex sindacato rosso e la sensibilità del primo Presidente del Consiglio donna per il tema del lavoro. Landini ha mostrato simpatia personale per il Premier ma ha anche fatto un lucido calcolo politico. La Meloni rischia di restare al governo a lungo e per il primo sindacato italiano diventa un interlocutore necessario.

L’aver fatto accettare alla sua base la visita (poco gradita) del Presidente del Consiglio è un altro punto a vantaggio del leader della Cgil che, non a caso, è stato rieletto con una maggioranza bulgara (94% dei voti). Il discorso della Meloni non è mai stato fischiato (come promesso da Landini) e le proteste sono state assolutamente marginali.

Parallelamente Giorgia ha dimostrato che tra le sue doti ci sono: il coraggio (era 27 anni che un Capo del Governo non parlava alla Cgil) e l’attenzione per i temi sociali. E questo non può stupire se si conosce la storia politica del Premier che inizia proprio in quel Movimento Sociale Italiano il cui programma era ricco di istanze legate al lavoro. Questi temi, come un fiume carsico, sono stati sempre presenti nel dibattito dell’anomala destra italiana, anche se spesso poco visibili.

 

Dal 1948 la “socializzazione” è rimasta centrale nel programma dell’MSI che reclamava: «La riorganizzazione dell’impresa in modo di consentire collaborazione ai fini sociali di tutti i fattori del processo produttivo». Affermazione che appartiene alla cultura fondante della destra sociale riproposta (spesso solo in modo retorico) da un congresso all’altro, per mezzo secolo. Nel 1995 a Fiuggi alla nascita di Alleanza Nazionale il tema della partecipazione sociale è ancora vivo: «Per An il lavoro è soggetto e non oggetto dell’economia. Al Lavoro deve essere riconosciuto il diritto di intervenire sulle scelte economiche». Da aggiungere che il Movimento Sociale ha sempre avuto un braccio sindacale: la Cisnal (Confederazione Italiana Sindacati Nazionale dei Lavoratori) nata nel 1950 e oggi ribattezzata UGL (Unione Generale del lavoro).

 

Grandi intellettuali hanno rappresentato il pensiero della destra sociale italiana che pur rimanendo minoritaria all’interno del MSI, è sempre stata in grado di suscitare emozioni e dibattiti. Beppe Niccolai e Giano Accame sono stati due dei maggiori esponenti di questa corrente che ha cercato di definire gli aggettivi “sociale” e “nazionale” dandone uno sbocco politico. Denunciando in tempi non sospetti (e ben prima del cambio di millennio) il pericolo delle privatizzazioni selvagge, l’espropriazione della sovranità e della democrazia attuata dai mercati finanziari, la globalizzazione che crea disoccupazione di massa, l’immigrazione senza controllo che distrugge le politiche salariali. Questa memoria, piaccia o meno, fa parte della storia di Giorgia Meloni. Da aggiungere che la dilagante deriva liberista è stata accettata in Italia di buon grado dalla sinistra che ha progressivamente barattato i diritti dei lavoratori con quelli “societali”. Ovvero i diritti personali odi piccole élite cosmopolite, come quelle che si battono per le istanze LGBTQ+. Per tutte queste ragioni Giorgia Meloni, al congresso della Cgil, era a suo agio e ha vinto la sfida.

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