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Covid, i tre ministri della salute hanno dormito? Non sono dei geni...

Claudia Osmetti
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Qui, cioè nell’incartamento della procura di Bergamo sulla gestione della prima fase della pandemia, l’unica cosa che forse sta in piedi è la faccenda del piano pandemico. Al netto del balletto zona rossa sì zona rossa no,  al netto di quella settimana di tentennamenti a febbraio del 2020 (che è stata anche una settimana di confusione totale: ma l’abbiamo spiegato bene nei giorni scorsi e chi lo nega, oggi, oltre ad avere la memoria corta, ha corta pure la buonafede), al netto dei numeri che lasciano il tempo che trovano e al netto anche del fatto che gli errori della politica, se errori ci sono stati, non si portano in tribunale, si portano in parlamento: il solo aspetto che, carte alla mano, può non finire in un nulla di fatto è quello legato al «documento di preparazione e di risposta a una pandemia». Il quale, però, nello specifico, ossia proprio sulle cartelle in esame, viene definita «influenzale»: già questo rischia di scombussolare il quadro perché l’ex ministro della Salute Roberto Speranza, colto di sorpresa dal Sars-cov2 come tutti noi, tre anni fa, pare abbia preso quelle 75 paginette e le abbia messe da parte dato che non erano costruite «specificatamente su un coronavirus, ma su un virus influenzale».


 

L’ULTIMO DOCUMENTO
Lo scrive il microbiologo Andrea Crisanti nella sua relazione agli atti dell’inchiesta bergamasca. Non ci stiamo inventando niente. Ci stiamo domandando, semmai, come si è arrivati a tanto. Perché la filiera oramai è nota: l’ultimo piano pandemico, in Italia, è stato fatto nel 2006. Quando è apparso il Covid era il 2020. Significa che sono passati almeno quattordici anni senza che nessuno, ma proprio nessuno, abbia mosso un dito. Tra l’altro, il 22 ottobre del 2013, l’affare è diventato comunitario: nel senso che il Parlamento europeo, in quell’occasione, ha cominciato a tirarci le orecchie. A dirci, cioè, che dovevamo darci una mossa, che le minacce alla salute oramai s’erano fatte transfontraliere (leggi: le malattie mica si fermano alla dogana di turno) e che bisognava aggiornare l’aggiornabile. Ci ha pure dato un termine, l’Ue: il 2014. Epperò zero. Ancora.


 

VARIANTI
E zero anche quando le successive varianti del piano pandemico sarebbero dovute esserci nel 2017 e (guarda le coincidenze) nel 2020. Un po’ come quell’amministratore di condomino che deve cambiare gli estintori, dice “domani lo faccio, ma tanto non succede nulla, aspetto ancora un giorno” e alla fine va a fuoco tutto il quartiere. Probabilmente non ci fai niente, con un singolo estintore, se ne frattempo brucia mezza città: però, almeno, hai qualcosa da con cui partire per difenderti. Ora, tuttavia il problema è che la lista degli “amministratori di condomino di via Ribotta” (per essere chiari: la lista dei ministri della Salute dal 2006 al 2020) è lunga e articolata. Si inizia con Livia Turco (Democratici di sinistra, governo Prodi II), si passa a Maurizio Sacconi e a Ferruccio Fazio (per il Popolo della libertà, governo Berlusconi IV), poi all’indipendente Renato Balduzzi (governo Monti), a Beatrice Lorenzin (balzata dal Nuovo centrodestra ad Alternativa popolare, governi: Letta, Renzi e Gentiloni), poi a Giulia Grillo (M5S, governo Conte I) e solo a questo punto si approda a Roberto Speranza (Articolo 1) in quel maledetto 2020 che vorremmo tutti dimenticarci. Allora di chi è la responsabilità? Di tutti o di nessuno? Non può essere solo di Speranza, verso il quale noi, qui a Libero, non siamo mai stati teneri, però dobbiamo anche avere l’onestà intellettuale di dirci che sì, se ha avuto delle colpe è giusto tirarle fuori, ma senza scordare tutto il resto. Ché un esecutivo, sempre, eredita una situazione pregressa: e se quella situazione ha un buco enorme, come sul piano pandemico (che a onor di cronaca, nel 2006, l’ha fatto Francesco Storace col Berlusconi III perché è stato pubblicato, si trova ancora sul sito del ministero, il 10 febbraio quando in carica c’era lui) vale l’insieme, non solo l’ultimo.

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