Elly Schlein, già iniziata la fuga dei moderati dal Pd: perché ora rischia
«L’ideale nostro alfine sarà / l’Internazionale futura umanità». Nella sezione di Bologna Centro hanno festeggiato la vittoria della compagna Elly cantandola a pugni chiusi, come ai bei tempi. Il segretario del Pd toscano, che si chiama Emiliano Fossi ed è anche deputato, ha subito riappeso la foto di Enrico Berlinguer nella sede fiorentina di via Forlanini. È il momento dell’orgoglio rosso e tutti gli altri piddini – i liberal, i cattolici moderati, i riformisti che preferiscono il Jobs Act al reddito di cittadinanza – si stanno facendo la domanda che mai si sarebbero posti se avesse vinto Stefano Bonaccini: cosa ci stiamo a fare qui?
Beppe Fioroni, che nel 2007 fu uno dei fondatori del Pd, la risposta se l’è già data: «Il Pd diventa un partito di sinistra che nulla a che fare con i nostri valori e la nostra tradizione. Per questo abbiamo dato vita ad un nuovo network di cattolici e democratici». È il primo ad andarsene, non sarà l’ultimo. Giorgio Merlo, dirigente dei cattolici popolari, assicura che l’addio dell’ex ministro della Pubblica Istruzione «non è che la punta dell’iceberg».
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LA LINEA DI FAGLIA
Sarebbe sbagliato, però, farne una questione di ex democristiani contro il resto del partito. Rosy Bindi, per dire, fa sapere di trovarsi benissimo sotto al tetto della Schlein, e giudica «una stranezza» la scelta di Fioroni. La linea di faglia è un’altra e la indica un parlamentare cattolico “nativo” del Pd: «Se ci saranno altre uscite, saranno dovute ad un eccesso di massimalismo, non all’incompatibilità con i principi cattolici». Un programma di socialismo, femminismo e ambientalismo radicali come quello promesso dalla Schlein è inconciliabile con le idee di chi, pur stando a sinistra, crede nelle ragioni dell’impresa e della proprietà privata, e considera un punto fermo il rapporto dell’Italia e del Pd con gli Stati Uniti.
È il caso del sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, che avverte: «Ci sono dei rischi». La Schlein «terrà la posizione atlantista o no? Terrà la linea di Letta sull’Ucraina o no? Sarà pragmatica sul lavoro, che non è solo difesa dei salari, ma anche creazione di lavoro, o no?». Nel primo caso, lui e molti altri resteranno lì; nell’altro, cercheranno una nuova casa politica. I dubbi di Gori sono gli stessi degli altri sindaci (tanti) e dei governatori del Pd che si erano schierati con Bonaccini, e del gruppo degli ex renziani di Base riformista guidato dall’ex ministro della Difesa Lorenzo Guerini, vicino a Sergio Mattarella. Un disagio al quale dà voce Andrea Marcucci, liberale ex renziano: «È svanito il sogno riformista, quello per cui è nato il Pd al Lingotto? Vedremo nelle prossime settimane». Ma già ora la domanda suona retorica.
Nessuno si dichiara pronto alla scissione. Tutti, però, mettono il cerino acceso nelle mani della nuova segretaria. L’ex ministro Graziano Delrio fa sapere che, se il Pd «non tradisce la sua ispirazione originaria e conserva il suo valore, che è fatto di diverse culture e sensibilità», rischi di divisione e fuoriuscite pesanti non ce ne sono. Ma è un «se» enorme. Che condiziona anche il gruppo di Pierluigi Castagnetti, l’ex segretario del Ppi che nelle settimane scorse aveva riunito i suoi e avvisato: «Se cambia la natura del Pd, i cattolici democratici prenderanno un’iniziativa».
Le prove chieste alla Schlein sono innanzitutto due. La prima è di tipo “pratico” e riguarda gli incarichi dirigenziali a livello centrale e locale: la nuova leader del partito, che ha vinto col 54% dei voti, davvero intende «non fare prigionieri», come dicono in queste ore i più infervorati dei suoi, o lascerà qualcosa a chi rappresenta comunque il 46% della base? I primi segnali sembrano confermare la volontà della Schlein di prendersi tutto e far saltare le teste di chi, a Roma, in Emilia-Romagna, Toscana e altrove, si era schierato con Bonaccini.
Ma il vero “esame del sangue” è l’altra prova: quale posizione prenderà la Schlein sull’appoggio all’Ucraina e la fornitura di armi all’esercito di Kiev? Sinora ha tergiversato senza dire nulla di chiaro e definitivo. Starà con l’Alleanza atlantica a costo di votare assieme al centrodestra, come ha fatto Enrico Letta, o starà con il popolo sceso in piazza nei giorni scorsi, e dunque con Giuseppe Conte e i Cinque Stelle? È la questione più importante, perché da essa dipende il rapporto con Mattarella e con il democratico Joe Biden: presto verrà il momento di scegliere tra loro e i pacifisti, e la scelta non potrà essere indolore.
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RENZI E CALENDA
Per Matteo Renzi e Carlo Calenda, il Pd guidato dalla Schlein è un grande regalo inaspettato. Guardando i risultati delle primarie del Pd, quelli di Italia viva ieri commentavano che «per i renziani non c’è salvezza lontano da Renzi. Bonaccini non ha convinto i progressisti moderati e a votare è andata solo la sinistra radicale». Lo scambio di telefonate e messaggi tra l’ex premier e i suoi rimasti nel Pd non è mai cessato, ma ieri, raccontano da Iv, lo hanno cercato tutti. Chi scappa dalla Schlein troverà nel terzo polo non una, ma due porte spalancate, perché Renzi e Calenda continuano a fare ognuno la propria partita. Ma questa è un’altra storia.
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