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Firenze, quando un preside "antifascista" indottrina gli studenti

Iuri Maria Prado
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L’italiano accidentato con cui l’ha scritta costituisce il meglio della lettera che la dirigente del “Leonardo da Vinci” ha inviato agli studenti dopo il fatto di Firenze, una rissa tra giovani di diverso colore politico che la retorica “antifa” ha elevato a riprova dell’emergenza nazionale: il baratro nero in cui è caduta l’Italia da quando sulle poltrone del governo non ci sono più i culi democratici della sinistra.

 

 

 

E appunto: il fraseggiare sbilenco di questa preside è dopotutto anche il meno, perché a sorpassarlo in indecenza è quel che in modo concessivo chiameremmo il contenuto di quella sua lettera, una specie di velina democratica che biascica vagheggiamenti antigovernativi mettendo insieme una tal somma di fesserie, di banalità da girotondo, di proclami da resistenza del 26 aprile, che manco un plenipotenziario di centro sociale. Senti qua: «Chi decanta il valore delle frontiere, chi onora il sangue degli avi in contrapposizione ai diversi, continuando ad alzare muri, va lasciato solo, chiamato con il suo nome, combattuto con le idee e con la cultura». E aggiunge: «Senza illudersi che questo disgustoso rigurgito passi da sé».

 

 

 

 

Lasciamo perdere le idee e la cultura (che se è questa roba te la raccomando): ma non faceva prima a dire, la signora preside, che la scuola democratica deve resistere, resistere, resistere al governo di centrodestra? Va «chiamato con il suo nome», dice. E fallo, questo nome: fascista, così siamo a posto. Almeno il romanziere anticamorra, Saviano, la dice più dritta: i governanti che non gli piacciono li chiama bastardi e buonanotte. È inutile precisare che un dirigente scolastico, come chiunque, ha tutto il diritto di detestare una maggioranza parlamentare e il governo cui essa ha dato fiducia: ma adoperare un fatterello di cronaca, per quanto deprecabile, per una requisitoria arcobalen-progressista da propinare ai Balilla Bella Ciao è una cosa diversa.

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