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Governo, coraggio e identità per accelerare le riforme

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Fausto Carioti
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Giorgia Meloni esce col sorriso e addirittura un applauso dalla fossa dei leoni dove ha trascorso oltre tre ore senza rinunciare a un grammo della propria identità, rivendicando la sua appartenenza («tutto quello che ha fatto il governo era di destra, altrimenti non l'avremmo fatto») e difendendo a spada tratta il Msi, «un partito della destra democratica e repubblicana». Un po' perché quei leoni, ossia i giornalisti che ogni giorno attaccano lei e il governo e l'attendevano alla conferenza stampa di fine anno, stavolta si sono rivelati più prede che cacciatori. E un po' perché lei, impegnata per la prima volta in un rodeo simile - 45 domande consecutive, finirà negli annali - ha dimostrato di sapersela cavare benissimo, pur non potendo contare sulla benevolenza che dodici mesi fa aveva avvolto Mario Draghi.

 

Nel momento in cui si chiude la fase emergenziale della manovra e sta per aprirsi la stagione in cui dovrebbero nascere le grandi riforme, la Meloni vuole far sapere che l'Italia ha una premier di parte non perché si preoccupa di una parte sola degli italiani, ma perché è convinta che l'interesse di tutta la nazione si possa difendere solo con le idee della destra che lei rappresenta. Idee che includono come primo ingrediente un'abbondante dose di libero mercato, offerta in risposta a chi insiste a difendere lo statalismo del reddito di cittadinanza: «Veniamo da legislature in cui ci è stato detto che il lavoro si poteva creare per decreto. Che la povertà si poteva abbattere per decreto. Non è così. Non è lo Stato che genera lavoro, il lavoro lo creano le aziende. Noi ci stiamo muovendo nella direzione di togliere cavilli e vincoli che sono controproducenti e, per quanto possibile, dando segnali sulla tassazione».

 

LA CASA NON SI TOCCA
Ecco, a proposito di imposte. Il rapporto del governo con la Ue è buono e la Meloni ne è più che soddisfatta. Però il feeling non arriva al punto da cambiare il catasto per aumentare gli estimi e con essi il gettito garantito dal mattone, come a Bruxelles, da anni, ci chiedono di fare. Su questo, le parole del presidente del consiglio sono definitive: «Si può fare una mappatura per migliorare la conoscenza che abbiamo delle costruzioni italiane, ma sicuramente da questo governo non partirà mai un aumento della tassazione sulla casa. In particolare sulla prima casa, che io considero un bene sacro, non pignorabile, non tassabile». Difendere l'Italia da destra vuol dire anche reagire come fa la Meloni dinanzi a chi definisce il Qatargate un «Italian Job», un lavoro italiano, «come se fosse una macchia sulla nostra nazione». Perché quello, ribatte, «non è un tema solo italiano, semmai è il tema di un partito: "Socialist Job"», ad indicare il gruppo cui appartengono la greca Eva Kaili e gli europarlamentari del Pd.

 

La determinazione a tirare dritto e il coraggio di farsi nemici saranno necessari per portare a termine la grande riforma che vuole «lasciare come eredità» della sua esperienza di governo: il presidenzialismo. Quando le viene chiesto se la «elezione diretta del presidente della repubblica», promessa dal centrodestra nel suo programma elettorale, sia una priorità del governo (oltre che della maggioranza in parlamento), la replica è netta: «Confermo che è una delle mie priorità. Io questa riforma la voglio fare. Mi do come obiettivo riformare le istituzioni in questa legislatura. Credo che si possa solo fare bene all'Italia con una riforma che consenta di avere stabilità e governi che siano frutto delle indicazioni popolari».

 

NON SOLO FRANCIA
Il modello d'Oltralpe, dove il capo dello Stato è eletto a suffragio universale, impone la linea al governo e nomina il primo ministro, non è l'unico possibile, e nemmeno il preferito dalla Meloni, che pure lo aveva citato nel discorso con cui aveva chiesto la fiducia in parlamento. «Sono sempre partita dal semipresidenzialismo alla francese», spiega ora, «perché è il modello sul quale storicamente c'era maggiore convergenza», anche da parte della sinistra. Se le opposizioni confermeranno la volontà di andare in quella direzione o verso altri modelli condivisi («si possono anche inventare»), sarà possibile far riscrivere la Costituzione ad una nuova commissione bicamerale, altrimenti meglio di no, perché sarebbe solo «uno strumento dilatorio», e lei vuole marciare veloce. Si capirà tra poche settimane se la maggioranza dovrà andare avanti da sola o potrà disegnare assieme ad una parte dell'opposizione la riforma della Costituzione, nella quale il premier vuole inserire anche novità epocali in materia di giustizia come la separazione delle carriere. Il ministro Elisabetta Casellati ha avviato le sue "consultazioni" con i partiti del centrodestra, entro gennaio parlerà con quelli dell'opposizione e al termine di questo giro, dunque a febbraio, la Meloni deciderà come procedere.
«Non escludo affatto che ci possa essere un'iniziativa del governo, ma se ci fosse la disponibilità di altri partiti e fosse più coinvolgente lavorare a livello parlamentare», assicura, «non avrei preclusioni». Di certo, avverte, «non sarò così sprovveduta da non capire eventuali atteggiamenti dilatori».


Il terzo polo, tramite il capogruppo Matteo Richetti, invia subito un segnale di disponibilità: «Se il governo apre una discussione sulle riforme, come ha fatto Meloni sul presidenzialismo, è evidente che non è possibile sfilarsi». Nessun segnale ufficiale dal Pd e dai Cinque Stelle. Dove molti sperano che l'Italia continui ad essere il Paese dei governicchi che durano in media 380 giorni, piuttosto che regalare alla presidente di Fdi lo status di De Gaulle italiana. Ma se al termine del suo lavoro a palazzo Chigi vuole davvero lasciare una nazione «orgogliosa e ottimista», come promette di fare, sono questi gli ostacoli su cui dovrà passare.

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