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Licia Ronzulli? Il suo ruolo comporta l'onere di ingoiare certi rospi

Fausto Carioti
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Un capogruppo della maggioranza che vota in modo difforme dal proprio gruppo su un testo del governo è una novità persino per il parlamento italiano. È successo ieri, nell'aula di palazzo Madama. Protagonista Licia Ronzulli, presidente della squadra di Forza Italia al Senato. Ossia titolare di un incarico non onorifico, ma istituzionale, tanto che a coloro che lo ricoprono è riconosciuta una dotazione di strutture migliore di quella dei semplici eletti, proprio perché commisurata alle maggiori responsabilità. La prima delle quali è guidare l'intera delegazione, e in molti casi parlare a nome di essa.

Si discuteva il decreto "anti-rave", che in realtà contiene un po' di tutto, inclusa la norma che anticipa dal 31 dicembre ai primi di novembre la fine dell'obbligo di vaccinazione contro il Covid per medici e infermieri. Una scelta che la Ronzulli, convinta pro-vax, non ha mai condiviso, lo ha sempre detto pubblicamente (brava, viva il coraggio) e perciò ha ricevuto minacce ed è stata messa sotto scorta (solidarietà). Motivo per cui ha annunciato che non avrebbe votato né l'articolo che la conteneva, né, alla fine, l'intero provvedimento. E questo nonostante, per sua stessa ammissione, lei ritenga quel decreto «condivisibile sotto tutti gli altri punti di vista» e, nelle parti in cui si occupa di giustizia, rappresenti per lei un motivo di «grande soddisfazione», la conferma che la maggioranza ha saputo avviare «un percorso di rigore, garantista, di rispetto delle regole».

 

Pur assicurando che la sua decisione è «personale», le critiche che ha sollevato sono politiche e rispecchiano la posizione di Forza Italia: «Avallare oggi il reintegro del personale sanitario che non si è sottoposto a vaccinazione significherebbe creare un pericoloso precedente. Noi legislatori stiamo dicendo ai sanitari che si sono vaccinati che avrebbero anche potuto non farlo». Posta questa premessa, politicamente pesante come un macigno, la senatrice ha garantito che il gruppo da lei guidato si sarebbe comportato «con senso di responsabilità» e avrebbe votato «in linea con la maggioranza».

Impegno che sarà mantenuto, ma non basta a far quadrare le cose. Le anomalie sono almeno due e la prima, appunto, è quella di un capogruppo che si comporta in modo diverso dalla propria squadra, come un colonnello che manda i soldati in una battaglia che lui si rifiuta di fare. In politica conta l'effetto, più delle intenzioni, e ieri l'effetto è stato quello di un regalo inaspettato all'opposizione. La Ronzulli è stata, per un giorno, l'esponente della maggioranza più apprezzato dal Pd, dove hanno applaudito alla sua scelta «coraggiosa». Il secondo problema è la comprensibilità del gesto agli occhi degli italiani. Se davvero - e non c'è motivo di dubitarne - il dissenso della senatrice riguarda una decina di righe su un totale di sette pagine, e tutto il resto va benissimo, farne capire le ragioni agli elettori di centrodestra e di Forza Italia non sarà facile. Ha senso non votare l'intero decreto solo perché anticipa di due mesi una cosa già decisa? E se gli altri diciassette senatori azzurri avessero seguito l'esempio della loro capogruppo, che storia racconteremmo oggi? 

 

Piaccia o meno, assumere il ruolo di presidente di un gruppo parlamentare implica, assieme all'onore che ne deriva, l'onere di mettere da parte le ragioni «personali» e ingoiare certi rospi. A meno che, col suo gesto di ieri, la potente esponente forzista non abbia voluto mandare un segnale politico agli alleati, come lei stessa nega e come l'opposizione invece spera. Ma è un'ipotesi talmente brutta, per un esecutivo che è appena nato e un partito che si professa - e sinora è stato - responsabile, che nemmeno merita di essere presa in considerazione.

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