Paola De Micheli, candidatura insabbiata: ecco perché il Pd la ignora
Un partito eternamente prigioniero di Nanni Moretti. Vent'anni fa esatti, l'angoscioso regista lanciò la sua terribile maledizione dal palco di Piazza Navona: «Con dirigenti di questo tipo non vinceremo mai». Oggi il Pd è ancora bloccato nella ricerca di se stesso: chi siamo, dove andiamo, cosa facciamo? Tanto le facce non cambiano mai e quelle poche nuove che si affacciano, dai gretini alle sardine, vengono prima marinate e quindi puntualmente inscatolate. A rompere le regole ci sta provando Paola De Micheli, ma al momento sembra che il solo risultato portato a casa sia stato rompere le scatole ai compagni partito. L'ex ministra di Conte è uscita dallo schema imposto da Nanni, che pose il dilemma «mi si nota più se non vengo o se vengo e me ne sto tutto da solo in silenzio in un angolo?».
L'aspirante leader Stefano Bonaccini, presidente della Regione Emilia-Romagna, ha optato perla seconda soluzione, ha fatto capolino nella direzione dem e non è intervenuto per tutte le agili dieci ore dell'appuntamento. La sua vice, Elly Schlein, candidata segretaria contro il suo capo, ha scelto la seconda via e non si è fatta vedere, favorita nella strategia dal fatto di non avere neppure la tessera del partito. Ma la De Micheli no, lei ha rotto indugi, dilemmi morettiani e muro dell'ipocrisia per farsi avanti apertamente: «Mi candido forte della mia esperienza, perché ho idee, grinta e voglia di cambiare; mi candido contro il patriarcato che vige nel partito e chiedo alle donne di smettere di essere complici e sostenermi». Seguono centoventi ore di silenzio assoluto dal partito, donne maltrattate comprese, che rappresentano meno di un terzo dei parlamentari nominati da Letta.
C'è un messaggio chiaro che emerge dall'indifferenza con la quale i dirigenti dem accolgono la candidatura della De Micheli e va oltre l'allergia per il gentil sesso nei posti di comando che caratterizza il partito dai tempi di Togliatti. Chi non apprezza l'ex ministra sostiene che la sua candidatura va a morire sul nascere perché Paola l'esuberante è stata troppo bersaniana e poi troppo lettiana e poi ancora troppo renziana, zingarettiana e nuovamente lettiana per essere credibile. Insomma, le va bene tutto purché si tiri avanti e quindi non si capisce dove andrebbe a parare. E in effetti il suo discorso di autocandidatura non è andato troppo oltre le buone intenzioni, le promesse di mettersi al pari degli elettori e ascoltarli per meglio rappresentarli, un nascondersi per non crerasi nemici anziché l'indicazione di una rotta da seguire, come si richiederebbe da un leader.
Può essere vero, ma non sono la volubilità delle amicizie della signora, e neppure la sua proattiva vaghezza, a non essere digerite dal corpaccione malato del partito. Quello che i dirigenti dem temono è la ventata di ruspante concretezza e reale novità che la De Micheli porterebbe. Meno giochi di palazzo, meno analisi del proprio ombelico, meno intellettuali e più politica pane e mortadella, che significa concretezza ben oltre le allegorie agresti e zoofile di Bersani. Tra il ritorno al massimalismo rosso e il conseguente abbraccio con i grillini e la ricerca di un progressismo moderato in nostalgia di Renzi, la De Micheli segnerebbe la terza via risolutoria, una sorta di rimbocchiamoci le maniche e che dio ce la mandi buona. Non sarà molto, ma almeno è un cambiamento.
IL SOSPETTO
Intendiamoci, l'autocandidatura, come il fatto di portare la gonna, non danno il diritto automatico all'investitura, ma quel che stupisce, fino a risultare irritante anche a chi non ha a cuore né la sorte del Pd né quella dell'ex ministra, è la totale indifferenza con la quale gli orfani di Letta hanno accolto il passo in avanti della signora. Perfino i giornali d'area, nel dedicare un paio di pagine al giorno alle cronache delle convulsioni dem, non riservano che poche righe all'ex vicesegretaria - con Orlando - di Zingaretti, che in tv viene invitata quasi esclusivamente dai pochi talkshow non a orientamento sinistro. A legittimare il sospetto che le signore di sinistra, quando parlano di promuovere le donne non ne fanno una questione di genere, ma personale, prendono il tutto ma intendono la parte, cioè solo loro stesse. Altrimenti non ci sarebbero state sfilate femministe contro l'eventualità che una donna diventi finalmente premier in Italia.