Elezioni 2022, i liberali non guardano che a destra: una scelta di campo inevitabile
A parte qualche inguaribile nostalgico, nessuno più crede che oggi possa rinascere in Italia un Partito liberale. Quella esperienza, al pari delle altre consimili, finì irrimediabilmente con la prima Repubblica. D'altronde, quel partito era una contraddizione in termini, come già Croce e Einaudi avevano rilevato: il liberalismo è un metodo prima che un sistema di pensiero. E comunque il liberale, abituato a ragionare con la propria testa, non può facilmente adeguarsi alla disciplina di un partito.
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La fine di quell'esperienza aprì un largo varco ai liberali, che si divisero e irrorarono con le loro idee varie forze politiche (in particolare la prima Forza Italia di Silvio Berlusconi). Ci furono persino molti (a cominciare dal compianto Valerio Zanone) che dettero credito ai partiti di sinistra, illudendosi sull'adesione, del tutto strumentale, dei compagni alle cosiddette politiche della "Terza via" teorizzate Oltremanica da Antony Giddens e messe in pratica da Tony Blair. Un equivoco durato per anni fino a che ieri Enrico Letta, che pur su quel fronte riformista si era un tempo impegnato, ha steso una pietra tombale su quell'esperienza, definendola obsoleta e aggiungendo di avere come riferimento non il Jobs Act ma le politiche del lavoro del governo di sinistra spagnolo: sussidi e assistenzialismo di Stato al posto di politiche attive e di merito.
Che quello di Letta sia un posizionamento dettato dalla necessità di non farsi superare a sinistra dai nuovi Cinque Stelle in versione contiana, può anche darsi. Il dato politico è però che l'equivoco di un liberalismo di sinistra del Pd da oggi in poi non potrà più essere perorato. Senza contare che riferirsi al modello governativo spagnolo, cioè a un'alleanza dei socialisti con i populisti di Podemos, ci fa capire che, passata la buriana, Letta e Conte non esiterebbero un minuto a riallearsi.
SGUARDO OBBLIGATO
Fugato ogni dubbio, mi sembra evidente che un liberale oggi non possa che guardare a destra. Certo anche nell'alleanza che si appresta a governare il Paese ci sono venature e contenuti che cozzano con la pura idea liberale, ma, come detto, il liberale non può pretendere di trovare in uno o più partiti politici il rispecchiamento fedele delle proprie idee.
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Può però individuare, sperando che fioriscano ancor più e che soprattutto non si risolvano in promesse vane, quegli elementi di liberalismo che forse nessuna coalizione politica che si è candidata a governare l'Italia negli ultimi trent' anni ha mai avuto in così grande abbondanza come quella attuale (nemmeno l'originaria Forza Italia).
Cosa è l'insistenza sulla diminuzione delle tasse, con la conseguente richiesta di una flat tax che accomuna il partito di Berlusconi a quello di Salvini, se non la più classica delle battaglie liberali? E quando Meloni dice che il reddito di cittadinanza va abolito «perché è culturalmente sbagliato», non sta ponendo il discorso su un saldo terreno liberale? Il vero problema dell'Italia, in effetti, non sono le diseguaglianze su cui insiste la sinistra, ma il declino che ha ormai corso da qualche decennio.
Se poi spostiamo il discorso sul terreno culturale, chi se non la destra sta oggi combattendo, sulla scia di Tocqueville e Mill, un'altra classica battaglia liberale, quella al conformismo e all'omologazione dei nostri tempi, cioè al "politicamente corretto"? E non si può ignorare la battaglia garantista sulla giustizia, quella che non dimentica la lezione di Beccaria e crede nella presunzione d'innocenza, il sigillo della nostra civiltà liberale. Mi sembra fin troppo chiaro che un liberale che non vota a destra il 25 settembre o non ha ben chiaro cosa sia il liberalismo o è in malafede.