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Pd, Enrico Letta al governo? Il drammatico precedente del 2013

Antonio Rapisarda
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«Nessun destino è già scritto», si premura a farci sapere Enrico Letta a corredo dell'autolesionistica trovata pubblicitaria - a sfondo "rossonero" - chiamata «Scegli». Proprio nessun destino? A dire il vero il suo, dal punto di vista politico, è scritto da un pezzo: e stavolta non c'entra il duello con Giorgia Meloni e il centrodestra il cui esito sembra tutt'altro che proiettato, comunque, a prefigurarsi a suo favore. Il destino del leader del Pd è stato già testato, più precisamente "rottamato", otto anni fa da Matteo Renzi. Perché sì, Enrico, prima di «stare sereno» dall'esilio dorato alla Science Podi Parigi, è stato per trecento giorni presidente del Consiglio.

Dieci travagliati mesi a capo di un governo di larghe intese, avviato nell'aprile 2013 dopo la non-vittoria di Bersani e conclusosi a San Valentino dell'anno dopo: non con un abbraccio, evidentemente, ma con la clamorosa e fratricida spallata da parte dell'allora sindaco di Firenze. Parafrasando Croce si potrebbe parlare di quel governo come di una «parentesi della storia»: purtroppo per il "giovane" Letta, però, le tracce del fiasco non scompaiono. Avete presente, oggi, Enrico "l'atlantista"? L'anti-putiniano di ferro che non perdona le intese (degli altri) con il capo del Cremlino? Nella stagione al vertice dell'esecutivo Letta le larghe intese le fece, eccome, pure con Vladimir. Ben 28, di natura economico-commerciale, firmate in pompa magna nel vertice intergovernativo (con venti ministri al seguito) tenutosi il 26 novembre 2013 a Trieste. Una dimostrazione della «disponibilità, dell'amicizia e della voglia di cooperare insieme», commentava festoso l'allora premier felice di aver «riannodato il filo» dei summit italo-russi che si erano interrotti.

Se sul fronte russo Letta premier anteponeva la realpolitik ai princìpi cari agli altri partner occidentali, è sul fronte mediterraneo che si è concretizzato uno degli storici flop del suo governo: l'operazione Mare nostrum. Parliamo dell'iniziativa militare e umanitaria (costo 9 milioni al mese), sorta dopo la tragedia al largo di Lampedusa (più di 300 morti a causa del naufragio di un'imbarcazione libica nell'ottobre 2013), che vide il coinvolgimento della Marina militare nel salvataggio dei migranti. L'obiettivo principale doveva essere, come spiegava l'allora ministro Alfano, proteggere le frontiere. Il risultato? La riesplosione - dopo la prima ondata del 2011 a seguito della crisi libica - degli arrivi: 43mila solo nel 2013 (170mila l'anno dopo). Ad approfittarne furono proprio gli scafisti. Parola di Gil Arias Fernandez, direttore dell'agenzia europea Frontex, che rilevava allora non solo «la crescita del numero di arrivi da quando l'operazione è stata lanciata» ma soprattutto che i trafficanti di essere umani utilizzavano imbarcazioni sempre meno sicure perché tanto sapevano «che poco dopo esser partiti dalle coste libiche gli immigrati» sarebbero stati soccorsi «dalla marina italiana».

La fissazione di Letta per i bonus non nasce certo con l'ideona della "dote" ai diciottenni da far pagare con una patrimoniale. Anche ai tempi di Palazzo Chigi tentò la strada del "bonus giovani" - tramite le aziende - con uno dei suoi annunci roboanti: «Creare 100mila nuovi posti di lavoro. Puntiamo a dare un colpo duro alla piaga della disoccupazione giovanile». Come andò a finire? Un altro flop: solo 22mila assunzioni fra i 18 e 29 anni in quel frangente. Degli ottocento milioni stanziati, solo 160 vennero utilizzati. L'offerta di un terzo della retribuzione lorda (si parlava, per ogni lavoratore, di un tetto di 650 euro al mese per un massimo di 18 mesi) non fu ritenuta evidentemente sufficiente dal mondo delle imprese per far aumentare il proprio personale.

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