Pd, la voce terremoto: Bonaccini candidato per far fuori Letta
Chissà se Enrico Letta ha compreso che nel Partito democratico è in corso una campagna elettorale parallela che punta dritto alla sua leadership. È quella di Stefano Bonaccini, bisgovernatore dell'Emilia Romagna, pressoché onnipresente nei dibattiti televisivi e dichiaratamente frondista rispetto alle scelte verticistiche del partito in materia di alleanze sin dai tempi della segreteria di Nicola Zingaretti. A onor del vero va riconosciuto che Bonaccini sta anzitutto facendo il proprio dovere per raccogliere voti nella Regione che da sempre rappresenta il polmone rosso della sinistra. E tuttavia la pervasività della sua presenza mediatica, accompagnata sempre da qualche venatura polemica verso i consanguinei romani, non da oggi induce a credere che dopo il 25 settembre sarà lui lo sfidante principale per la guida dei democratici.
“Guanciale o pancetta?". L'esperto massacra Letta con una frase
OVUNQUE Dai teleschermi ai comizi, passando da ultimo per il Meeting ciellino di Rimini (ufficialmente per parlare di "Motor valley"), l'estate di Bonaccini è stata finora intensa e frenetica come quella delle prime file candidate a governare l'Italia. Lui del resto non fa mistero di misconoscere la linea apocalittica perseguita da Letta- «Basta parlare di rischio fascismo, altrimenti che facciamo il giorno dopo se vincono? Non scherziamo» - almeno quanto si mostra orgoglioso di aver imbarcato nella propria maggioranza Azione, Italia viva, Verdi, Si e Articolo 1: «Nessuna giornata di crisi». Anche perché nel suo schema il Movimento Cinque stelle rappresenta un trascurabile inciampo della storia politica, essendo egli riuscito a ottenere la riconferma in Regione senza la palla pentastellata al piede e anzi avendo costruito sull'esclusione dei grillini buona parte della sua immagine di vincente dalla vocazione maggioritaria ma pragmatica.
Ecco allora che il nostro uomo del fare, espressione dello storico modello emiliano ammodernato dall'outfit contemporaneo cucitogli addosso dall'eccellenza comunicativa di Marco Agnoletti (lo stratega che ha tolto a Matteo Renzi i calzoncini da boy scout di provincia per trasformarlo in un Fonzie toscano a Palazzo Chigi), può permettersi di offrirsi sul mercato delle idee come la punta avanzata della resistenza ai populisti.
I poster della sinistra svelano la posta in gioco del voto
LOTTA ALLA DESTRA Duro sino all'eccesso con la «destra protezionista, isolazionista e sovranista... se era per Meloni, il Pnrr non sarebbe mai arrivato»; impietoso perfino con il terzo polo dell'ex amico Matteo e di Carlo Calenda - «Sanno bene che nei collegi uninominali non hanno nessuna possibilità di prevalere, la contraddizione è tutta loro in questo momento»- Bonaccini è stra convinto che le elezioni non si vincono necessariamente né a sinistra né al centro («però ci tocca andare a prendere anche quei voti, o vince il centrodestra o il centrosinistra, non esistono alternative») e men che mai allarmando l'opinione pubblica sul rischio d'una torsione totalitaria. La legittimazione dell'avversario trasformato in nemico non fa parte del lessico riformista che Letta pare aver gettato alle ortiche. Più semplicemente: si vince facendo proposte chiare, credibili e realizzabili. «Noi non siamo migliori, ma siamo diversi e alternativi» ha detto lui e in questa frase si annida appunto la sconfessione plateale del lettismo in armi. Ed è appunto questo il prologo della resa dei conti post elettorale. Un appuntamento che Bonaccini avrebbe voluto (ma non potuto) anticipare già all'epoca dello sciagurato governo giallorosso, quando lui e pochi altri osavano contraddire le "zingarettate" sull'allora premier Giuseppe Conte beatificato come "fortissimo punto di riferimento progressista". Essendo però uomo accorto, Bonaccini rifiutò il corteggiamento degli ex renziani Lorenzo Guerini e Luca Lotti (corrente Base riformista, oggi con ali cadute), i quali cercavano di triangolare con lui per aprire anzitempo le porte della cittadella dem al suo assalto. Ma Bonaccini ha in testa il progetto di scalare il partito dal basso, avvalendosi delle alleanze con gli amministratori locali e tenendosi a debita distanza dalle trame bizantine della Capitale fino a che non sarà di specchiata evidenza il fallimento del nipote d'arte. A quel punto, Joe Condor dagli occhi di tigre incontrerà sulla propria via il cranio rasato e volitivo d'un modenese di successo. E saranno guai.