Luigi Di Maio, vuole fare l'americano ma...: sospetti sul legame con Pechino
Luigi Di Maio ha avuto un'ottima idea. Ha detto alla Stampa che nella prossima legislatura occorrerà creare una commissione d'inchiesta per «indagare i rapporti tra i leader dei partiti italiani e alcuni mondi politici e finanziari russi. Perché sono successe delle cose assurde». Ad esempio che l'ambasciatore a Roma, Sergey Razov, abbia «fatto un endorsement alla risoluzione di Conte sull'Ucraina». Anche se lanciata come strumento di polemica elettorale contro Giuseppe Conte e Matteo Salvini, la proposta del ministro degli Esteri è da apprezzare. È necessario fare luce sui rapporti che altri Stati possono aver avuto con i leader e gli uomini di governo italiani, e sulle manovre per dirottare la nostra politica estera. Una simile inchiesta, però, non può limitarsi alla Russia. C'è un'altra grande potenza che ha provato a ledere il nostro rapporto storico con gli Stati Uniti, e Di Maio lo sa bene, perché è la Cina. Ecco, la commissione da lui proposta, che a norma di Costituzione procederà «alle indagini e agli esami con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell'autorità giudiziaria», oltre a lavorare sulle intromissioni di Mosca dovrebbe investigare su quelle di Pechino, e senza ignorare le ingerenze di Razov dovrebbe preoccuparsi di ciò che ha fatto Li Junhua, che dal luglio del 2019 è ambasciatore del regime cinese a Roma.
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UNO STRANO LEGAME
Per cominciare, la commissione potrebbe usare quei poteri per scoprire cosa ha fatto il fondatore, capo politico e infine garante dei Cinque Stelle nei suoi tanti colloqui con Li, svoltisi sia nella sede diplomatica cinese, sia nella residenza privata dell'ambasciatore. Un rapporto che pare iniziato nel 2013 col predecessore di Li, quando Beppe Grillo sarebbe entrato per la prima volta nell'ambasciata assieme a Gianroberto Casaleggio. «Se qualcuno volesse sponsorizzare, in maniera pubblica ma riservata, un partito come il M5S, potrebbe usare una società privata come la Casaleggio associati», è l'ipotesi sulle intenzioni cinesi fatta da Marco Canestrari, ex dipendente della Casaleggio Associati, in un'intervista a Il Dubbio. Di sicuro il rapporto ha dato buoni frutti. Il più evidente è stato la conversione di Grillo, sul cui blog, ancora nel 2017, si denunciavano «le conseguenze catastrofiche dell'apertura commerciale alla Cina». Due anni dopo il comico pubblicava sul web la foto che lo ritraeva assieme a Li, a testimonianza di «un piacevole incontro». E ora quello stesso blog è tutto zucchero e miele per il leader cinese Xi Jinping, il quale ci indica persino «un approccio unico ed efficace per costruire la pace» in Ucraina.
La commissione d'inchiesta non potrebbe chiamare a testimoniare l'ambasciatore né indagare sudi lui, ma nulla impedirebbe di farlo con Grillo. Anche per capire quali interessi avesse il rappresentante di Pechino, e quali argomenti abbia usato per far cambiare idea al comico, e con lui a tutti i Cinque Stelle. Perché l'altro al quale quella commissione avrebbe tante domande da fare è proprio Di Maio. Nel marzo del 2019 l'allora vicepremier, ministro dello Sviluppo e capo del M5S, firmò, alla presenza di Xi e Conte, il memorandum che segnava l'ingresso dell'Italia nella «Belt and Road Initiative», la nuova «Via della Seta», lo strumento di collaborazione economica che la Cina usa per legare a sé, anche politicamente, i Paesi asiatici, africani ed europei, con una predilezione per quelli gravati da un alto debito pubblico. Un evento destabilizzante per la politica estera italiana. Come nota la relazione del Copasir approvata ieri, «l'ingerenza e le ambizioni globali di Pechino sono apparse evidenti in occasione del memorandum sulla Nuova Via della Seta e di 29 accordi commerciali e istituzionali tra Roma e Pechino». Senza fare «alcun passaggio parlamentare, l'Italia è diventata il primo Paese del G7 a sottoscrivere un accordo sul discusso maxipiano infrastrutturale della Repubblica Popolare».
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LE PREOCCUPAZIONI USA
Da Washington chiesero in tutti i modi a Di Maio e Conte di non farlo. Il portavoce del consiglio nazionale per la sicurezza Usa disse che l'Italia era «una preoccupazione speciale. Premendo perché firmi, la Cina pare credere che l'Italia sia economicamente vulnerabile o politicamente manipolabile». E l'ambasciatore a Roma, Lewis M. Eisenberg, avvisò che «gli Usa non possono condividere informazioni con Paesi che adottano tecnologie cinesi, siamo seriamente preoccupati sull'interoperabilità Nato». E' dovuto arrivare Mario Draghi per raddrizzare le cose, e Di Maio è stato lestissimo a sposare l'atlantismo del premier. Gli interrogativi però restano e sono tanti. Si sommano a quelli sollevati a suo tempo da Matteo Renzi, che ha chiesto una commissione d'inchiesta «sulle mascherine, sui ventilatori e sugli acquisti dalla Cina» decisi dal governo Conte durante la pandemia. Perché Di Maio ha ragione, «cose assurde» in questi anni ne sono successe, ma non riguardano solo i suoi avversari, né solo la Russia.
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